Essere Jai Hindley

Umile e rilassato nonostante la sua recente elevazione a rango di "vincitore di un Grande Giro”, Jay Hindley, vincitore del Giro d’Italia 2022, ci racconta delle paure e della capacità di trovare forza interiore negli ultimi due giorni di corsa del Giro.

testo di Isabel Best

L’intervista è appena finita. Il vincitore del Giro d'Italia raccoglie le tazze di caffè vuote che stanno appoggiate sul tavolo davanti a noi, che ci stiamo alzando in piedi, e le riporta al bar. 

È passato appena un mese da quando questo ventiseienne australiano ha vinto la corsa più importante della sua carriera, apparentemente da outsider. La sua vita si è trasformata in questo intervallo? 

"Non saprei dire, un po' forse, ma non molto. Molte cose sono rimaste invariate, il che è bello", dice, prima di aggiungere: "Non mi piace molto quando i ragazzi ottengono un grande risultato e poi si montano la testa e cambiano, e tutto il resto che succede. Io credo che rimarrò per sempre me stesso, è quello che so fare meglio".

Mentre la sfilata del Tour de France attraversa la Danimarca, Jai Hindley si allena in altura per il suo prossimo grande obiettivo della stagione, la Vuelta a España. Nel momento in cui è qui a parlare con noi, seduto nel bar deserto dell'hotel più alto dei Pirenei, tutto sembra così talmente calmo e normale, con Jai è così facile parlare, che è difficile immaginare che è diventato improvvisamente uno dei corridori più importanti del ciclismo.

Intorno a noi non c'è nessun addetto stampa iper-protettivo con un cronometro in mano per controllare quanto tempo impiegniamo per la nostra intervista, e non c’è nessun fan che si aggira nei paraggi in cerca di un autografo o di un selfie. Quando ci spostiamo all'esterno dell’hotel per scattare qualche ritratto, nessuno dei ciclisti amatoriali che hanno raggiunto pedalando questo colle a 2.408 metri di quota sembra avere la minima idea di chi possa essere il ragazzo magro che indossa l'elegante kit verde Bora-Hansgrohe. Lo vedono, lo guardano e passano oltre, senza riconoscerlo, fermandosi invece davanto al cartello che indica la cima del Port d'Envalira per scattare una foto.

A dire il vero, anche a distanza di un mese, sembra che lo stesso Hindley non si sia ancora reso ben conto del suo nuovo status tra i corridori da Grand Tour.  

"Sono andato in vacanza in Italia con la mia ragazza subito dopo la fine del Giro", racconta. "Abbiamo trascorso una settimana in piena modalità vacanza, facendo cose da turisti, e non ho avuto il tempo di pensarci troppo. Un giorno eravamo al ristorante, all’aperto, tranquilli e all'improvviso ci abbiamo pensato, e io non riuscivo a smettere di sorridere. Anche lei non riusciva a crederci", dice, mentre un grande sorriso gli si allarga sul volto.

Nessuno si aspettava che Hindley vincesse il Giro d’Italia 2022. Anche se ci era andato molto vicino nel 2020, l’anno della sua svolta come corridore, conquistando la maglia rosa nella penultima tappa e perdendola poi nella cronometro finale, non era nella lista dei favoriti di quest'anno. Non per colpa sua, il 2021 è stata invece una stagione da dimenticare, funestata dall'inizio alla fine da malattie e infortuni. Tutte le premesse del 2020 sembravano essere svanite. 

 

Possono accadere molte cose strane al Giro d’Italia, il grande giro dei tre in cui è più probabile la vittoria di un corridore non tra i favoriti. Spesso i corridori che fioriscono qui all'inizio della loro carriera, finiscono per sparire qulache anno dopo. Forse un po’ tutti avevano pensato la stessa cosa con Jai Hindley. 

Racconto a Hindley di Raphaël Géminiani, un grande campione francese della fine degli anni '40 e '50 che, come lui, era uno scalatore di talento. Ha corso contro Bartali, Coppi e Gaul ed è stato un protagonista chiave durante la maggior parte dei momenti iconici di quell'epoca, diventando poi il brillante e talvolta machiavellico direttore sportivo di Anquetil. Ho trascorso molte ore a parlare con lui per un libro che cerca di distillare un po' della sua saggezza agonistica, e una cosa che mi ricordo di avergli sentito dire molte volte, è che nessun corridore vince un grande giro per caso. 

 Quando Roger Walkowiak vinse il Tour de France nel 1956, un relativo sconosciuto che aveva sbaragliato tutti i favoriti, il suo successo fu attribuito al fatto che si fosse trovato in una grande fuga nei primi giorni di corsa. ‘Faire un Walko’ divenne un'espressione francese per indicare un vincitore non all’altezza. La verità è che anche lui corse una gara intelligente e coraggiosa in montagna e Géminiani ribadisce che la vittoria del suo connazionale fu assolutamente meritata. 

 Nel 1966 tutti si aspettavano che Poulidor sconfiggesse finalmente Anquetil, eppure a trionfare fu il compagno di squadra di Anquetil, Lucien Aimar, che non era mai stato considerato un favorito. Géminiani, che era il loro direttore sportivo, aveva cominciato a lavorare alla vittoria di Aimar, già l'anno precedente. 

Ci possono essere vincitori a sorpresa, quind, ma sono una sorpresa solo per noi che guardiamo dall'esterno. Per i corridori e per le squadre, c'è sempre un piano. Mi chiedo quale fosse il piano di Jai Hindley.

"Credo di essere partito con dei pronostici di vittoria molto bassi", riconosce, "il che è piuttosto divertente: ho fatto guadagnare un bel po' di soldi a un po’ di miei amici a casa, perché nelle loro scommesse hanno puntato su di me fin dal primo giorno. Ci ridiamo spesso. Io nella mia mente sapevo che se avessi fatto tutte le cose giuste, tutto il duro lavoro dei mesi precedento sarebbe venuto fuori e allora sì, avrei potuto fare un bel salto in classifica nella settimana finale".

"Era questo il mio piano, fin dall'inizio dell'anno. Nel ritiro di dicembre quando ci siamo ritrovati con la squadra, abbiamo fatto una riunione tutti insieme. Tutti quelli che sarebbero venuti al Giro lo hanno saputo lì e sapevano anche che ci sarebbero stati tre possibili leader: Wilco [Kelderman], Emanuel [Buchmann] e io. Era tutto deciso fin dall'inizio.

La squadra mi ha detto: ‘Vogliamo che tu faccia una corsa tranquilla e senza problemi, sappiamo che puoi essere molto forte nell'ultima settimana’. Quindi sì, il Giro d’Italia è sempre stato il mio obiettivo”.

"Quando si punta alla classifica generale di un grande giro, bisogna avere fiducia in se stessi, perché sono tre settimane brutali e poi c'è un'intera squadra che lavora per te e sostienele tue ambizioni. Quindi, se non hai fiducia e non sei convinto tu per primo, cosa ci fai lì?".

La primavera è trascorsa abbastanza tranquillamente, con il quinto posto di Hindley alla Tirreno-Adriatico. La mattina della Liegi-Bastogne-Liegi, a meno di due settimane dall'inizio del Giro, gli è venuta la febbre. "E questo mi ha praticamente fatto perdere le staffe per tre giorni", racconta. La pausa forzata ha fatto sì che arrivasse al Giro non con la rifinitura della preparazione che voleva. 

"La mia più grande preoccupazione è stata la prima settimana. Anche prima della malattia, è sempre stata la mia più grande preoccupazione, perché avevamo tutti questi spostamenti, tre giorni in Ungheria, due giorni in Sicilia, l'Etna già nella quarta tappa. C'era un alto rischio di ammalarsi e poi di sentirsi di merda quando si arrivava sull'Etna. Per questo motivo, la prima settimana ero molto stressato. Sapevo di arrivare un po' sottotono, ma sapevo che nella terza settimana le cose sarebbero andate meglio".

Jai comunque ha superato agevolmente le prime due settimane, conquistando una brillante vittoria in cima al Blockhaus nella nona tappa, che lo ha portato dal 15° al quinto posto in classifica generale, mentre nell'ultima settimana è risalito fino al secondo posto, a soli sette secondi da Richard Carapaz.

"L'ultima settimana è stata molto stressante perché sapevo di avere le gambe giuste per vincere, ma non avevo più giorni per farlo. Ci sono state molte tappe dure ma gli arrivi non erano mai super duri, non c'erano salite molto ripide a spezzare il percorso. Stava diventando molto frustrante perché stavano praticamente finendo i giorni per fare qualcosa di buono e Carapaz sembrava inattaccabile. Poi ho guardato la tappa 20 e mi sono detto: ‘Wow, gli ultimi 5 km sono davvero difficili, faremo un tentativo lì’. All'inizio della giornata il podio era già più o meno sicuro, a meno di non fare un disastro assoluto. Tutti si sentivano stanchi a quel punto della gara, penso che sia più una cosa mentale in quella fase perché tutti si sentono male fisicamente, tutti hanno le gambe pesanti. Mentalmente si tratta solo di rimanere concentrati e di non perdere la testa”.

"All'inizio della giornata sapevo che avrei potuto decidere tutto in quella salita. Se fossi saltato e avessi perso altro tempo rispetto a Carapaz, pazienza. Non volevo che si ripetesse quello che è accaduto nel 2020. Sapevo di volere un po' di margine in vista della cronometro finale e quando sono arrivato agli ultimi 5 km della salita mi sono detto: vado a tutta, anche se esplodo".

È facile dire queste cose a posteriori ma dopo tutta la preparazione della gara, dopo essere arrivato fin lì come da programma e dopo la delusione del 2020, non era un po' snervante giocare a quella specie di roulette russa? Secondo Hindley è tutta questione di fiducia in se stessi.

"Anche se nelle interviste non dicevo cose del tipo, 'Sì, ho le gambe gouste e domani penso di poter staccare tutti in salita, quello era ciò che pensavo. Credo che intimamente uno debba avere piena fiducia in se stesso. Per la tappa 20, stavo bene. A metà giornata stavamo salendo la penultima salita e le mie gambe erano pesanti, ero super stanco, mi faceva male tutto. Ma bisogna essere consapevoli del fatto che anche gli altri si sentono così. La fiducia in se stessi, è tutto. Se non hai fiducia in te stesso, non può succedere niente di buono".

 Se Hindley quel giorno era stanco, a vederlo non lo sembrava.

"È stato un momento da pelle d'oca. Era una salita durissima quella della Marmolada e quando ho guardato Carapaz - sono stato alla sua ruota per tutta l'ultima salita - mi sono detto che stava benissimo. Non si muoveva molto sulla bici, sembrava molto tranquillo e pensavo che sarebbe stato difficile attaccarlo e liberarsi di lui. Ineos ha imposto un ritmo molto elevato e quando Pavel Sivakov si è spostato, Carapaz ha allungato leggermente. Mentalmente per me è molto difficile attaccare mentre qualcun’altro lo sta già facendo. Sapevo che Carapaz appena solo sarebbe partito e dovevo prima pazientare e poi provare a controattaccare non appena avesse calato il ritmo”.

"Kämna era nella fuga e il DS gli detto di tenersi pronto perché stavo arrivando. Non c’è nemmeno stato bisogno di parlare, tra noi. L’ho raggiunto e lui ha pedalato a tutto gas tirandomi per tutto il tempo che ha potuto, ha fatto un'impresa assoluta. Verso la fine della sua tirata credo che Carapaz stesse già iniziando a cedere un po' e alla radio i ragazzi mi strillavano: "Full gas! Carapaz sta calando, è in difficoltà", e questa è stata la motivazione di cui avevo bisogno.

 "Sono rimasto piuttosto sorpreso che calasse, mi era sembrato piuttosto forte per tutta la parte finale della salita, non sembrava affatto in difficoltà e quando l'ho sentito dire alla radio sono rimasto più che altro sorpreso”.

"Quando ti dicono così, cominci a pensare che potresti essere in Maglia Rosa alla fine della giornata e quel punto scatta qualcosa dentro di te, dai il massimo. È il tuo momento".

"L'atmosfera sulla salita era pazzesca. La gente era impazzita. La radio era impazzita, tutti erano impazziti. È stato molto faticoso, ma allo stesso tempo non ricordo quasi nulla dello sforzo. Stavo andando così a tutta che quando ho tagliato il traguardo ero completamente sfinito. Ricordo che il medico è venuto a darmi una spinta verso appena dopo il traguardo, ma da quel momento fino a quando mi sono seduto a terra è tutto un po' come un black out. Ero al 100%, è stato il momento di intensità e di sforzo più profondo che io abbia mai vissuto".

Prendere il controllo della situazione nella 20ª tappa era una cosa, ma il giorno dopo rimaneva ancora la cronometro finale a Verona. Jai Hindley aveva accumulato un notevole margine di 1’25” in pochi chilometri soltanto, ma senz’altro il ricordo del 2020 doveva essere vivido nella sua mente. Nella tappa 20 a cronometro del Tour de France 2007, Michael Rasmussen cadde due volte, forò, fece tre cambi di bicicletta e scese dal terzo al settimo posto in classifica generale, perdendo 7’47” in un colpo solo. Non si sa mai cosa può succedere, in una crono finale.

Sulla carta però, la situazione era completamente diversa rispetto al 2020, quando la cronometro finale incominciava con lo stesso tempo in classifica generale di Tao Geoghegan Hart, il vincitore finale. Quest’ anno il margine di vantaggio era consistente e in programma c’era un percorso collinare breve, che gli si addiceva molto di più. 

"Ero molto fiducioso in me stesso ma non stavo ancora lasciando spazio ai festeggiamenti, diciamo così. Molti in gruppo mi dicevano: 'Fantastico, hai vinto', ma per me il lavoro non era ancora finito. Finché non ho tagliato il traguardo fuori dall’Arena a Verona, sono rimasto concentrato”.

"Dopo la vittoria, fino alla fine a Verona, sono stato nervoso per tutto il tempo. Non volevo darlo a vedere ma me la stavo facevo sotto dalla paura per due motivi: primo perchè dopo una giornata a tutta in montagna, il giorno seguente, puoi sempre svegliarti ammalato. Secondo perchè non sai mai esattamente come reagiranno le tue gambe”.

"Ho letteralmente dato tutto nella tappa della Marmolada. Ero preoccupato di ritrovarmi magari a spingere sui pedali all'uscita della rampa di partenza e poi niente... non avere niente nelle gambe. E poi ero preoccupato di forare o di avere un problema meccanico o qualsiasi altra cosa del genere”.

"È stato davvero stressante. Ma una volta arrivato in cima alla salita, all’intermedio a metà percorso della crono, ho sentito che eravamo più o meno appaiati con lo stesso tempo e da quel momento in poi ho affrontato la discesa con calma, ho affrontato tutte le curve con prudenza, ho perfino fatto un rettilineo in pavé prendendomi il lusso di rallentare, senza correre alcun rischio. Ho passato il traguardo e ho visto uno dei nostri soigneur dopo la linea che stava andando fuori di testa, quindi ho pensato: 'Oh beh, allora forse ho proprio vinto!'".

Hindley mi dice che suo padre è molto interessato al buddismo, da cui deriva il suo insolito nome di battesimo. Faccio una ricerca e scopro che la parola jai significa vittoria. Quando in India le persone si battevano per l'indipendenza dalla Gran Bretagna, uno dei loro slogan era "Jai Hind", cioè "Vittoria all'Hindustan". Che coincidenza curiosa.

Seguendo la linea di pensiero buddista, mi chiedo se Hindley abbia una sorta di mantra per mantenere la concentrazione quando il livello dello stress sale. 

"In fin dei conti io sono soltanto un atleta ed è solo una gara di biciclette. Se la metti in questi termini, tutto si semplifica".

"È strano, perché fino ad ora ho dedicato tutta la mia vita alle corse in bicicletta. È un pensiero basato sugli opposti, paradossale, ma mentalmente è il modo in cui riesco a sdrammatizzare e a non sentore la tensione. Pensare troppo alle cose che ti preoccupano, non fa bene".

Jai Hindley è ancora giovane e chissà cosa gli riserverà ancora il futuro. Questa vittoria però sembra già un'esperienza epocale nella sua vita, ottenuta tra alti e bassi, nella post-pandemia. Quando la pandemia ha colpito, l'Australia occidentale si è isolata dal resto del mondo. "Entrare in Australia era come accedere a Fort Knox", racconta. "Credo che ci siano stati due voli a settimana - o qualcosa del genere - per un anno. Non sono più tornato in Australia dall'inizio del 2020".

È stato difficile separarsi dalla sua famiglia in quel periodo? "Cazzo, sì. Non ci sono altre parole per dirlo. Cazzo, sì!".

Jai ha avuto la fortuna di avere la sua ragazza al suo fianco, lei è venuta a vivere con lui in Europa, durante quel periodo. "È stato decisivo averla con me. Avere la mia compagna accanto in un momento difficile come questo è stato fondamentale".

La ciliegina sulla torta della tappa finale di Verona è stata rivedere finalmente i suoi genitori. "La squadra li ha fatti arrivare con aereo per il finale della gara. Prima di incontrarli nell’Arena, non li vedevo da due anni e mezzo. È stata una giornata pazzesca".

Come primo australiano a vincere il Giro d’Italia, Jai Hindley ha raggiunto nel suo paese uno status simile a quello di Cadel Evans, il primo australiano a vincere il Tour de France e un suo  eroe d'infanzia. "Nel 2020, prima del TT finale, Cadel mi aveva mandato un messaggio chiedendomi se volevo fare due chiacchiere", racconta Hindley. "Quando ricevi un messaggio del genere da una leggenda del ciclismo australiano, è davvero bello". Evans era presente anche alla fine della gara di quest'anno. "Si è preso il tempo di venire all’Arena a per il finale, è stato davvero bello!".

Quali sono le ambizioni future di Hindley? "Sarebbe davvero bello partecipare al Tour de France. Questo è il mio quinto anno da professionista e non l'ho ancora mai fatto". Poi vorrebbe anche cimentarsi in qualche corsa di una settimana ma per ora il suo prossimo grande obiettivo è la Vuelta. "Sarebbe bello gareggiare contro dei veri fuoriclasse, i ragazzi che stanno facendo il Tour in questo momento. Credo che molti di loro faranno anche la Vuelta, quindi sarà davvero bello". 

Hindley parla più come un tifoso, che come un campione. È modesto fino al surreale. L’impressione si rafforza quando ci ringrazia per essere venuti fin qui per incontrarlo e intervistarlo. E poi si alza a sbarazzare la tavola dalle tazze sporche. 

 È facile immaginare che Jai Hindley, non si monterà la testa. 

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