Mondiali | La storica rivalità tra Italia e Belgio

Due stili a confronto. Due modi di vedere il ciclismo. La storia di una rivalità unica che ha dominato gran parte dei Campionati del Mondo di ciclismo su strada, soprattutto fino agli anni Novanta. Una battaglia con un unico obiettivo: la maglia iridata.

Belgio e Italia; centodue anni di duelli Mondiali, specialmente nelle gare di linea maschili, per un totale di ottantaquattro medaglie d'oro se sommate tra loro. È più della metà del medagliere complessivo: cinquantaquattro per l'Italia e trentotto per il Belgio.


Tanti sono i capitoli scolpiti nella memoria degli appassionati di ciclismo, primo tra tutti il Mondiale del 1953, tenutosi nella città di Lugano. Quel Mondiale passò alla storia per l'incredibile performance di Fausto Coppi capace di battere Germain Derycke, altro prodotto della grande fabbrica di corridori belgi, della stessa stirpe dei due volte campioni Briek Schotte e Marcel Kint e aggiudicarsi la maglia iridata. L'impresa simboleggiò l'ottimismo nato dal miracolo economico italiano, dopo la depressione causata dalla Seconda Guerra Mondiale, con la vittoria ottenuta superando Derycke al penultimo giro e con una progressione infernale: in soli 20 chilometri, Coppi accumulò un vantaggio di sei minuti su Derycke. Derycke conquistò l'argento, mentre il velocista belga Stan Ockers si aggiudicò il bronzo dopo aver battuto l'italiano Michele Gismondi al quarto posto.

Trecentomila persone accorsero sul confine italo-svizzero per rendere omaggio a Coppi, che quattro anni prima si era dovuto accontentare del bronzo, uscendo sconfitto in seguito al feroce sprint lanciato dal grande Rik Van Steenbergen. Fu un duello all'ultimo sangue in una volata a tre, con lo svizzero Ferdi Kübler, l'aquila di Adliswil, che riuscí a trarne il massimo vantaggio. Come si suol dire, tra i due litiganti il terzo gode.


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Questi due modi di darsi battaglia a colpi di pedale continuarono anche nella generazione successiva, come nella gara disputata nella città italiana di Imola nel 1968. Un giorno destinato a rompere la supremazia fiamminga che i due Rik - Van Looy e Van Steenbergen - Stan Ockers, Benoni Beheyt ed Eddy Merckx avevano cementato e consolidato dopo la vittoria di Fausto Coppi nel 1953. In totale, quattordici anni di depressione neorealista con una sola vittoria italiana, quella di Ercole Baldini nel 1958, contro le sette dei belgi.

L'obiettivo non poteva essere differente: ritrovare lo spirito combattivo del tre volte campione Alfredo Binda, che aveva inaugurato la rivalità italo-belga con i suoi duelli contro lo specialista Georges Ronsse all'inizio della Coppa del Mondo nel 1927. Così, con l'orgoglio ferito, il vicecampione del mondo del 1964, Vittorio Adorni, si prese a cuore l'incarico di fare impazzire il pubblico, quasi interamente italiano, e portare a casa i primi sei posti in classifica. Fa eccezione l'intromissione di Van Springel, medaglia d'argento, che si infila nel quadro finale come una stampa immaginata dal maestro della pittura fiamminga Jan Van Eyck.

Il ciclista belga Rik van Looy ha indossato la maglia iridata nelle stagioni 1961 e 1962. Qui ritratto al Tour de France / Foto: Archivio nazionale olandese

Nelle edizioni successive, i trionfi si equilibrarono. La fine dell'era Van Looy, campione nel 1960 e nel 1961, lascia il posto a quella del suo grande ammiratore, Freddy Maertens, nemico pubblico numero uno del Cannibale e le cui scappatelle sentimentali con Ornella Muti, sulla bocca dei tabloid italiani, rafforzano ulteriormente la sua immagine di ribelle. Amico personale dei componenti della band dei Pink Floyd, Maertens fu la prima rockstar del ciclismo. Questa immagine è stata rafforzata dalla sua aria distaccata, con un'apparizione secondaria in Zabriskie Point, il film hippie di Michelangelo Antonioni, e dal suo ego incorreggibile al di fuori del mondo delle due ruote.

Oltre alla sua dittatura ai Campionati del Mondo, i trionfi del belga si moltiplicano anche sull'asfalto nelle classiche italiane. Tra il 1970 e il 1981, le prime pagine della Gazzetta dello Sport furono invase dalle ripetute vittorie di Merckx e di Roger de Vlaeminck, lo Zingaro, in gare come la Classicissima o, peggio ancora, su un altro terreno che fin lí era quasi proibito: il Giro d'Italia. Ma, lungi dal crollare di fronte alla supremazia belga, l'Italia fu contagiata dall'ottimismo indotto dall'ascesa al potere dell'anziano Alessandro Pertini, più noto per i suoi accesi festeggiamenti per la vittoria della Coppa del Mondo di Spagna '82 nel palco del Santiago Bernabeu che per la sua intensa lotta contro Mussolini e il terrorismo nel suo Paese.

Sotto un'aura così accattivante, stava nascendo un gruppo di corridori senza pari che sembrava nato per mascherare con l'ottimismo il crudo grado di violenza vissuto negli anni di piombo che all'epoca devastavano il Paese. Fu così che i trionfi ai Mondiali di Felice Gimondi e Marino Basso lasciarono il posto a quelli di ciclisti più raffinati come Francesco Moser, Giussepe Saronni e Moreno Argentin. L'Italia viveva il suo momento di massimo splendore nelle corse di un giorno, ma i belgi detenevano ancora la supremazia sui circuiti spezza gambe.

Negli anni Settanta e Ottanta, le gare di Coppa del Mondo continuarono. Solo i Paesi Bassi, costruiti attorno alla mitica squadra Ti-Raleigh - all'epoca casa di Knetemann, Raas e Zoetemelk - riuscirono a intromettersi in un regno a due teste, amplificato dall'arrivo in volata nel 1971 tra Merckx e il suo stesso Poulidor, Gimondi. Cinque anni dopo, fu Maertens a vincere la gara di più alto livello nella storia dei Campionati del Mondo. È più che sufficiente dire che Tino Conti era il nome meno scintillante tra i primi otto. Infatti, è stato l'italiano a conquistare il bronzo, davanti a Zoetemelk.

Il belga Freddy Maertens si è imposto sull'Italia ai Mondiali del 1976, dove Moser e Conti hanno vinto rispettivamente la medaglia d'argento e di bronzo / Foto: Presse Sports

Per l'oro e l'argento, fu Maertens a scolpire un'ode alla volate, fulminando Moser sul traguardo. Anche l'altra sua vittoria, nel 1981, fece una vittima transalpina, Saronni. In uno sprint di massa in cui tre corridori erano belgi e due italiani, questi ultimi arrivarono tra i primi sette. Solo tre anni più tardi, Claude Criquielion approfittò dei vuoti di Claudio Corti che, dopo che il suo leader Moreno Argentin gli aveva dato il permesso di volare libero, era convinto di rimanere in testa fino all'ultimo giro. Nonostante lo sforzo disperato negli ultimi chilometri sul cicuito di Barcellona, il belga arrivò al traguardo con 14 secondi di vantaggio. In quegli anni, però, il ciclismo non era più il menù principale del Belgio: l'addio di Merckx coincise con l'apice dell'era calcistica belga, con il secondo posto della nazionale agli Europei del 1980, il quarto posto ai Mondiali di Messico '86 e i trionfi di club come Bruges e Anderlecht.

L'eterna condanna delle atrocità commesse da Leopoldo II a capo dell'imperialismo belga era ancora una ferita aperta nella storia di un Paese che, nel pieno della gestazione della Comunità europea, vedeva in Bruxelles l'asse della futura Europa unita. I cambiamenti verso questa nuova Europa avvennero con il ritiro dello Zingaro e il graduale declino di Maertens. Queste perdite ebbero un effetto devastante su una squadra che, dal 1985 al 1989, perse il controllo dei Mondiali, mentre gli italiani conquistarono ben cinque medaglie, tra cui due ori per Moreno Argentin e Maurizio Fondriest.

Dagli anni Novanta in poi, la globalizzazione del gruppo ha aperto delle crepe nella dittatura segnata da doppi campioni del mondo come Gianni Bugno e Paolo Bettini, gli ultimi eroi dell'Italia che, nelle ultime nove partecipazioni, che ha vinto l'ultima medaglia, un argento, nel 2019 con Matteo Trentin. Il Belgio ha saputo colmare questa lacuna con la medaglia d'oro conquistata da Philippe Gilbert a Valkeburg nel 2012, la medaglia di bronzo vinta da Tom Boonen nel 2016, la medaglia d'argento di Wout Van Aert nel 2020 e la medaglia d'oro vinta da Remco lo scorso anno. Sono le ultime battute di un confronto tanto atteso quanto i ritornelli sanguigni di Jacques Brel e la spavalderia popolare di Lucio Battisti.

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