Mattias Skjelmose non si arrende mai

Mattias Skjelmose non si arrende mai

Il ciclista danese Mattias Skjelmose ha vissuto un sacco di esperienze più o meno drammatiche negli ultimi quattro anni. Rouleur l'ha intervistato chiedendogli di più circa la sua crescita ad alta velocità.

Autore: Victor Lindholm Immagini: Sean Hardy

Questo articolo è stato pubblicato originariamente sul numero 117 della rivista Rouleur.

Ho incontrato per la prima volta Mattias Skjelmose nella primavera del 2018. Aveva 17 anni, era contento di stare al mondo e stava per conquistare la scena europea juniores. Era appena arrivato terzo alla Parigi-Roubaix juniores e si sentiva invincibile. La cosa gli piaceva da morire. Era un vincitore con un grande futuro davanti e si sentiva che poteva dire qualsiasi cosa e nessuno poteva ribattere. Era un cretino.

Ma è successo qualcosa che ha avuto grandi conseguenze per il ciclista professionista, ora ventiduenne e appena fidanzato, seduto di fronte a me oggi al Palmarès cycling café, a nord di Copenaghen. Fuori è calata l'oscurità invernale, la sua Trek Madone SLR 7, appoggiata al bancone, è stata appena dotata di nuovi parafanghi per le strade bagnate di questa stagione, e Skjelmose ha concluso la sua seconda stagione con Trek-Segafredo. Se gli aveste chiesto nell'autunno del 2018 se oggi sarebbe stato seduto qui a parlare della sua stagione e del suo percorso verso il ciclismo da pro, avrebbe sbuffato di dolore e rabbia.

Perché qualcosa è andato terribilmente storto per il giovane Skjelmose. È risultato positivo a un integratore alimentare contaminato, ingerito accidentalmente, è stato messo fuori gioco per otto mesi ed è passato dal pedalare ogni giorno al fare festa ogni giovedì, venerdì e sabato. Questa è la storia di un giovane proveniente dal tradizionale quartiere operaio di Amagerbro, a Copenaghen, che è diventato uno dei talenti più quotati del WorldTour maschile.

Diligente e introverso
"Non ho mai sentito il bisogno di stare in mezzo agli altri. Da piccolo non avevo amici con cui giocare. Solo ora che sono più grande mi rendo conto di quanto possa essere stato strano. Ma non sono mai stato particolarmente socievole".

È così che Skjelmose si descrive da bambino. Un ragazzo un po' introverso, sovrappeso e timido, che non era né bravo a giocare a pallone né molto abile in bicicletta, ha iniziato a pedalare a 11 anni perché lo trattavano bene alle sessioni di allenamento del club ciclistico locale, l'Amager Cykle Ring, dove si sono formati grandi nomi danesi come l'ex vincitore di una tappa del Tour de France Brian Holm. Ma era scarso, per usare un eufemismo. All'età di 13 anni, Mattias Skjelmose partecipò alla sua prima gara per corridori tesserati e fu abbandonato dopo due chilometri. Ma questo non lo fece desistere. Al contrario.

"La gara era di 40 chilometri e l'ho portata a termine", racconta. "È stato assolutamente incredibile. È stata una vittoria enorme per un ragazzo come me, all'epoca".

Il giovane di Copenaghen ha vinto la sua prima gara all'età di 15 anni, e forse non ha suscitato la reazione attesa da parte del patrigno, che non credeva ai risultati.

"Avevo vinto una gara, ma lui non riusciva a crederci. Ai suoi occhi ero un ragazzino grasso, non un futuro ciclista. Dovevo solo provare quella sensazione di vittoria un po' di più", racconta.

Skjelmose imparò presto che non era il talento fisico più considerevole, ma anche che non era questo che contava. Aveva invece il talento di lavorare sodo, che forse gli deriva dalla sua educazione sull'isola di Amager, nella parte meridionale di Copenaghen. Amager è tradizionalmente conosciuto come un quartiere operaio ed è ancora colloquialmente noto come l'Isola della Merda, perché qui venivano depositati i rifiuti delle latrine di Copenaghen. L'etica del lavoro diligente e le circostanze umili si sono insinuate nello spirito locale. Qui si lavora sodo per raggiungere i propri obiettivi.

"Mi piace il fatto che si debba lottare per arrivare da qualche parte. Che bisogna guadagnarselo", dice. "Ad Amager, la gente non ti guarda dall'alto in basso perché non hai l'attrezzatura più costosa o perché i tuoi genitori non hanno soldi. Qui, ciò che conta è che tu ti stia impegnando. Per gli allenamenti al club andavo in giro con una vecchia bici da città con manubri da corsa e nessuno mi guardava male".

Ma non sono stati solo il suo quartiere e il suo club ciclistico a insegnare a Mattias Skjelmose a lavorare sodo. Sua madre è stata proprietaria di un bar nel centro di Copenaghen e di una palestra per donne, suo padre ha lavorato in proprio per tutta la vita e il suo patrigno ha lottato per passare da un orfanotrofio a un imprenditore. È normale lottare per farsi strada in circostanze disagiate. Si ha successo grazie alla fatica.

In quel momento, nella vita del giovane danese entrò un nuovo modello. Il suo agente, che in seguito ha contribuito a fargli ottenere un contratto da professionista con la Trek-Segafredo, lo ha tranquillizzato e gli ha insegnato a essere più umile, a mettere le cose in prospettiva e a non lasciarsi sedurre dal proprio talento. "Mi ha anche insegnato a non sentirmi vendicativo. Non potevo essere arrabbiato. Al contrario, la situazione doveva darmi forza. E così è stato. Mi ha costretto a crescere più rapidamente", dice.

Piangere in bici

Grazie a un contratto con la squadra di sviluppo Leopard Racing, Skjelmose è tornato al ciclismo, lasciandosi alle spalle le feste e tirando fuori la bicicletta dall'armadio. Ha iniziato la stagione 2019 dopo la scadenza del divieto a maggio con una motivazione e una fede rinnovate.

"Tutto l'odio che avevo provato prima, me lo sono lasciato alle spalle", dice. Ma la tragedia non ha tardato a scuotere la sua vita.

Il 31 maggio 2019, il 18enne corridore della squadra nazionale Andreas Byskov Sarbo fu investito da un'auto durante una gara ciclistica nella città di Odder, nello Jutland, a causa di un conducente che aveva invaso il percorso di gara. Quel giorno morí un giovane, un grande corridore e uno dei pochi amici di Mattias Skjelmose.

"Ricordo che mio padre mi telefonò per dirmi che Andreas era stato investito. Spesso ho difficoltà a mostrare le mie emozioni, quindi reagisco senza reagire veramente. Invece ho mandato un messaggio ad Andreas dicendogli che ce l'avrebbe fatta, che era forte. Ma più tardi, quel giorno, hanno staccato il respiratore. È morto".

La tragedia ha avuto un forte impatto su Skjelmose, che ha perso la motivazione a gareggiare. "Ricordo che nei mesi successivi ho continuato a scrivere ad Andreas su Messenger. Gli dicevo che ci mancava e di non temere che non lo avremmo dimenticato. Il dolore mi ha colpito come un treno. Anch'io avevo appena superato un periodo difficile, e ora dovevamo lottare con questo".

Skjelmose afferma più volte di avere difficoltà a mostrare il proprio dolore. "Ho usato la bici per liberarmi dei cattivi pensieri degli anni passati. È così che uso la bici. Per rallegrarmi, pensare, piangere e piangere". In questo senso, Skjelmose ha un rapporto esistenziale con la Trek, che è ancora appoggiata con nonchalance al bancone all'ingresso del caffè, mentre Frank Ocean suona discretamente dagli altoparlanti e giovani ciclisti danesi passeggiano parlando delle loro gambe doloranti.

"Non c'è da stupirsi che queste esperienze abbiano fatto scattare qualcosa in me", riflette. "Sono maturato. Ho scoperto che ho bisogno di stare da solo. Non ho più paura di stare da solo. Ho riconosciuto che è solo una parte di me che mi aiuta a funzionare. Sono un'anima solitaria, ma questo non mi rende più triste".

Nell'agosto del 2019, Mattias Skjelmose si è recato a Milano per entrare nella scena professionale. Aveva 18 anni, aveva subito una condanna per doping, aveva perso un caro amico, eppure era in viaggio verso le strutture di allenamento della Trek-Segafredo per firmare un contratto come stagista con la squadra americana WorldTour. Gli era stato promesso che, se le cose fossero andate bene per lui, erano pronti a firmare un contratto di due anni per il 2021-22. Improvvisamente la fortuna girò dalla sua parte e Mattias Skjelmose diventò un professionista a tempo pieno ai massimi livelli.

Durante la sua prima stagione, nel 2021, riuscì a classificarsi al sesto posto al Tour degli Emirati Arabi Uniti e successivamente al quinto posto nel Tour de l'Ain. Le stelle si stavano improvvisamente allineando per il giovane danese, parallelamente a una generazione d'oro di suoi connazionali. Così, all'inizio del 2022, tutto si stava concretizzando per una svolta importante, in un momento in cui i corridori danesi avevano vinto entrambi i Campionati del Mondo, alcune delle più importanti corse di un giorno e il Tour de France. Per Skjelmose era difficile non sentirsi sotto pressione.

All'inizio è andata bene. Al Tour de la Provence di inizio stagione conquistò il terzo posto. Fu battuto solo da Nairo Quintana e dal campione del mondo Julian Alaphilippe. Non male per un ventunenne. Questo dette a Skjelmose la convinzione che il 2022 sarebbe stato l'anno in cui avrebbe ottenuto la sua prima vittoria ai massimi livelli, l'anno in cui tutti avrebbero visto quanto era bravo. Iniziò a parlare di un piazzamento tra i primi dieci al Giro d'Italia. Ma non andò proprio cosí. Tappa dopo tappa, Skjelmose fu lasciato nella polvere e non  riusciva a  capire perché si sentisse così stanco.

"Credo di essere diventato troppo impaziente", dice. "Sono tornato al mio vecchio modo di essere, in cui tutti dovevano sapere quanto ero bravo e quanto avrei fatto bene. Ho finito per allenarmi troppo e per pensare troppo a tutto, così la mia testa si è rotta. Penso ancora di poter fare tutto da solo. Ma sono troppo giovane e inesperto".

Skjelmose ha ricevuto molto rapidamente un'offerta dalla Trek-Segafredo per un ruolo di leadership, ma è stato difficile per lui accettarla. È un po' in contrasto con le sue ambizioni di un approccio più umile alla vita, ma come per molte altre cose, si tratta di trovare un equilibrio. Questo è ciò che il 2022 ha rappresentato per lui.

"Poiché da bambino ero molto insicuro, istintivamente voglio adattarmi al branco, ma questo non funziona se devo anche essere un leader. Devono potersi fidare di me. Ne ho parlato molto con Mads Petersen. Quando vai in bicicletta non hai amici. Hai solo i tuoi compagni di squadra e tutti gli altri possono prendere a calci le pietre. Vedo Mads come il leader ideale e guardo a tutti i suoi successi. Cerco di essere un bravo ragazzo per i primi 100 chilometri, poi divento stupido. La maggior parte delle persone sa cosa serve per vincere, ma non tutti hanno le palle per farlo".

Un approccio più moderno

Se nel 2019 qualcuno avesse detto a Skjelmose che nella primavera del 2022 sarebbe salito sul podio del Tour de la Provence, avrebbe giocato d'azzardo. All'inizio è stato così, ma il 2022 è stato anche l'anno in cui il danese ha dovuto lottare per raggiungere la vittoria, che era l'obiettivo della stagione. È arrivato quinto a La Route d'Occitanie, terzo ai Campionati nazionali danesi a cronometro, terzo al Tour de Wallonie, secondo al Tour de l'Ain e terzo al Giro di Danimarca.

"So che è assurdo dire che sono stato deluso da questi risultati, ma è così. Ero incredibilmente infastidito", dice. "Ma la delusione è anche il mio carburante. È difficile che mi accontenti di qualcosa. È una spinta enorme, ma può anche consumarmi in un modo che danneggia la mia vita privata".

Questo è un fattore significativo che è cambiato nella vita di Skjelmose da quando l'ho incontrato nel 2018. Ora è fidanzato e convive con la sua partner e il loro cane, il che ha spostato le priorità della sua vita: "Sono stato davvero pessimo con la mia ragazza. So che è banale, ma divento un pessimo ciclista se le cose non vanno bene a casa. Per questo è diventato importante per me passare ancora più tempo con lei, e mi ha rattristato che lo abbia detto. Che mi fossi concentrato così tanto sul mio ciclismo da dimenticarmi di lei. Dopo tutto, è lei che mi salva ogni volta che le cose vanno male. È lei che mi sostiene".

Skjelmose ha portato il lavoro a casa troppo spesso. Il suo risentimento per la mancanza di vittorie ha avuto ripercussioni sulla sua relazione, ma l'ha anche aiutato a capire come essere un adulto e un ciclista professionista e avere una relazione allo stesso tempo. Non è una conversazione che si affronta spesso con la stampa o tra i corridori, anche se molti di loro hanno questo particolare problema in comune.

"Non parliamo molto di queste cose in squadra", dice. "Le persone hanno paura di sembrare deboli. Anch'io non ne parlo con nessun altro. Ho paura di espormi. Dopotutto, si tratta pur sempre di uno sport da macho, e se gli altri pensano che io sia un po' fragile, potrebbero avere più difficoltà a vedermi come un leader. Ma questo è un errore quando è perfettamente comune: come si integrano le diverse parti della vita?".

Per quanto riguarda il suo piccolo, è stato semplice. Ha dovuto migliorare nel lavare i piatti, nel fare le pulizie e nel fare le cose con la sua ragazza. Cose ordinarie, importanti, ma anche facili da dimenticare dopo aver percorso 200 km in bicicletta. Lo sport sta cambiando in questo senso, anche se è ancora molto conservatore. Non ci si aspetta solo che le mogli e le fidanzate siano dei fornitori di servizi che si occupano dei figli e della casa e che vengano con loro quando i corridori vanno all'estero. Il ciclismo professionistico sta lentamente entrando nel presente.

La vittoria
La tranquillità in patria è stata importante in una stagione frustrante che si è decisa solo molto tardi, al Tour de Luxembourg. Dopo il Giro di Danimarca, che Skjelmose sperava di vincere, era completamente esausto. La pressione della costante ricerca di punti lo aveva logorato, tanto che rischiò di non partecipare al Deutschland Tour, ma lo ha fatto lo stesso, per poi crollare con uno strappo al ginocchio. "È qui che mi arrabbio davvero", ammette. "Non voglio finire la mia stagione in questo modo, quindi insisto. Continuo a parlare con i medici e alla fine mi viene concesso di partecipare".

Il 7 settembre, Mads Pedersen ha vinto la sua seconda tappa alla Vuelta a España. Nella mattinata di quel giorno, Trek-Segafredo ha pubblicato un video. In esso, Mads Pedersen ha tenuto un discorso alla squadra, incoraggiandola e promettendole una vittoria se avessero dato il 100% per lui. Era autoritario, ma anche divertente, e prima della partenza del Tour de Luxembourg, Skjelmose guardò il video. Ha acceso un fuoco dentro di sé.

"È scattata una specie di molla e ora so che voglio vincere. Ho detto alla squadra che se si fossero fidati di me, avrei fatto centro. Era questo il punto. Ero il leader", dice. Ed è stato davvero così. Skjelmose è rimasto fuori dai guai e a portata di podio fino alla quarta tappa, una cronometro, la sua specialità. Quando è salito sulla bici da TT, era nono in classifica; alla fine della giornata, era il numero uno. Aveva vinto la sua prima gara da professionista e il giorno dopo poteva mettere tutto al suo posto. Certo, non era il Tour de France, che il suo connazionale Jonas Vingegaard, un po' più anziano, si era assicurato il mese prima, ma era sufficiente. Mattias Skjelmose era soddisfatto.

Le montagne più alte

E questa potrebbe essere la più grande differenza tra il ragazzo che ho conosciuto nel 2018 e il giovane e, ormai, uomo adulto che incontro oggi. Ha già passato più di molti altri nel gruppo, e non è che non sia affamato o che non voglia vincere le gare più importanti. Ma è maturato nel ruolo. Parla di relazioni, dolore e incertezza, pur riuscendo a sottolineare che è un corridore professionista perché vuole vincere. E sono certo che lo vedremo raggiungere le vette più alte nelle prossime stagioni. Perché lui è Mattias Skjelmose di Amager, e la gente di Amager non si arrende mai. 

 

Autore: Victor Lindholm Immagini: Sean Hardy

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