Ivan Basso - Coltivatore di mirtilli, imprenditore, papà.

Ivan Basso - Coltivatore di mirtilli, imprenditore, papà.

La vita di un ex-corridore non è soltanto memoria delle vittorie e trofei messi in bacheca da spolverare ma anche ricerca di equilibrio, ritmo e felicità. 

Giro 2023

Testo di Mirianna La Grasta

Fotografie di Paolo Ciaberta

Articolo pubblicato originariamente su Rouleur Italia n. 08

Ci sono quaranta gradi e il sole cocente picchia sul volto di Ivan Basso mentre si aggira in un rigoglioso e verdeggiante campo di mirtilli. I suoi, mirtilli. Sono passati alcuni anni da quando ha lasciato mondo del ciclismo professionistico e la sua vita ora scorre ad un ritmo differente. Alto e abbronzato, strizza gli occhi per proteggersi dalla luce abbagliante, il cielo è terso. Basso è sempre lo smiling assassin, l’assassino sorridente come amava chiamarlo la stampa estera, soltanto che adesso la sua arma è un trattore Bassan color verde alga. “Il mio giocattolino”, come lo chiama lui.

“Perché non ne provi un po’?” grida da sopra il trattore. Poi prende una manciata di mirtilli da una cassa, se li infila in bocca e continua a scrutare le sue 5000 piante. Ciò che una volta era un campo coltivato ad orzo, oggi ospita piante di mirtilli, un'azienda agricola e la casa della famiglia Basso.

 

Ci troviamo ad Oasi Boza, un parco naturale protetto alle porte di Cassano Magnago. Ivan è cresciuto proprio qui, in questo paesino collinare di 21000 abitanti tra Milano e Varese. Ha iniziato a coltivare mirtilli nel 2011 insieme a sua moglie Micaela, è quello di cui si occupavano i suoi nonni in Valtellina, 130 chilometri a nord-est da qui. Da bambino Ivan li visitava spesso in montagna per la stagione del raccolto.“Raccogliere frutta è stata una delle attività preferite della mia infanzia, quindi ho pensato: perché non fare la stessa cosa anche qui dove vivo?” mi dice. La terra di Ivan si trova tuttavia in un luogo decisamente diverso dalle zone alpine dei suoi nonni. “Non ci sono meleti o vigneti, qui” dice, scrollando le spalle. La provincia di Varese è una zona a vocazione industriale, i campi e le aziende agricole sono davvero poche e Ivan e sua moglie hanno deciso di andare decisamente controcorrente.

“Qui in Italia si parla sempre di crisi economica, di disoccupazione e di precarietà... io sono abbastanza convinto che la terra da coltivare possa essere un soluzione. Bisogna ricominciare da qui,” dice guardando l'erba che abbiamo sotto i piedi. Punta con gli indici in basso, il suo gesto è così intenso che riesco a percepire il legame profondo che Ivan ha con la sua terra.

Essendo metà luglio siamo in piena stagione di raccolta, questa mattina sono molte le persone venute a raccogliere i mirtilli. La maggior parte è gente del posto. Alcuni arrivano in sella alle loro biciclette, che parcheggiano sulla lingua di ghiaia bianca tra la casa della famiglia Basso e i campi coltivati. Altri vengono su camminando a piedi lungo la collina verdeggiante che affianca il paese. Si avventurano tra le piante di mirtilli in abiti estivi, cappelli e ciabatte, armati di buste, scodelle di plastica e cesti in vimini. Ci sono anche parecchi bambini che un po’ aiutano le loro famiglie e un po’ scorrazzano sull’erba, mangiando frutta e giocando a nascondino tra i filari di piante. Esattamente come faceva Ivan tanti anni fa dai suoi nonni.

“Questo è uno dei metodi che proponiamo ai nostri clienti e si chiama auto-raccolta: le persone vengono qui e fanno tutto da sole” dice. “Però se vuoi puoi anche comprare i mirtilli al banco o trovarli in un piccolo negozio in paese allo stesso prezzo”. Anche i ristoranti, le pasticcerie e le gelaterie della zona attingono dal raccolto di Ivan, che da quasi dieci anni serve un bacino in cui vivono oltre 25000 persone. Una volta finita l’auto-raccolta i clienti si dirigono verso il grande capannone appena oltre la la lingua di ghiaia, dove c’è un tavolo di legno con due bilance. Qui Micaela, la moglie di Ivan insieme a Domitilla, la seconda di quattro figli, aiuta i clienti. “Domi” dalle trecce bionde pesa il sacchetto di mirtilli che una coppia di signori le porge. Poi lo solleva dalla bilancia color acquamarina, lo consegna ai clienti, incassa i soldi e ringrazia.

La famiglia Basso durante i giorni dell'auto-raccolta è presente al gran completo. Tutti i figli danno una mano quando possono, trovando comunque il tempo per qualche pausa di gioco quando l’Oasi non pullula di clienti. 

Il primogenito Santiago è appena tornato da un giro in bicicletta. “Oggi è riuscito a rompere una sella,” dice Ivan, ridacchiando divertito. Nel frattempo suo fratello minore Levante gioca a calcio con altri due bambini su di un campo di calcetto improvvisato. Ed ecco che arriva Tai, la più piccola dei figli di Ivan e Micaela che viene verso di noi pedalando su una mini- mountain bike con le rotelle. “Grande, vaii!” la incoraggia Ivan. “Spero conservino un ricordo di me anche per quello che faccio adesso”, dice osservando i campi. Che si tratti dei suoi successi, delle sue sconfitte o dello scandalo successivo alla Operación Puerto del 2006, i suoi figli sanno già tutto “Il papà-corridore, lo conoscono già”. “I media continuano a chiedermi del mio passato e di quei due anni di squalifica. Non voglio cancellare niente di ciò che è stato ma è trascorso del tempo e il ciclismo è andato avanti e anche io sono andato avanti, cambiando in meglio” dice.

“Insistere sul mio passato non ha più senso”, sostiene Ivan. “I corridori di oggi mi apprezzano per quello che sono e per il lavoro che sto facendo adesso, per come gestiamo la squadra se la sappiamo far funzionare bene, non per la mia carriera.” Ivan insieme a Alberto Contador nel 2018 ha fondato Eolo-Kometa, la prima stagione come squadra UCI ProTeam nel 2021 è andata bene, con la vittoria della tappa più importante del Giro d’Italia sullo Zoncolan con Lorenzo Fortunato, non ci si può proprio lamentare.

“Andiamo dentro,” dice Ivan, portandomi nel suo ufficio - è una gradita fuga dall’afa estiva. Entriamo in quello che non si può definire un classico ufficio. Somiglia più alla tana di un campione. Un ampio open space, dove le pareti grigie contrastano con il rosa “Gazzetta” dei souvenir del Giro. Ivan prepara il caffè in un angolo della stanza. Alla sua destra c’è una bicicletta montata su uno smart-trainer e pronta per essere usata.

Torna con le tazzine e si accomoda sul divano. Alla sua sinistra c'è una grande tela del Giro d’Italia 2006, la sua prima vittoria in rosa. Lo si vede sfilare con la bici sul lungo tappeto all’interno dell’Arena di Verona: ha un sorriso gigantesco. Sorride anche adesso mentre guarda quella fotografia e ricorda i momenti chiave della sua carriera.

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“Tutto è iniziato nel 1984. Ero a Verona con i miei genitori quando Moser vinse il Giro d’Italia. La mia passione per il ciclismo è cominciata proprio lì, in quel momento e in quel luogo” dice, indicando di nuovo la foto appesa al muro. “Quella curiosità si è trasformata nel mio sport e successivamente nel il mio lavoro. Andare in bicicletta è ancora oggi la cosa che mi diverte di più fare al mondo”.

Ivan va in bici per svagarsi, da solo, con gli amici o con i suoi figli, anche se non vuole che questi ultimi si concentrino sul ciclismo solo per via del fatto che il padre era un professionista: "Penso che i bambini fino all’età di 16 anni dovrebbero provare a praticare più sport e non per diventare atleti, ma soprattutto per crescere sani ed essere persone in gamba. Lo sport ti insegna valori come il sacrificio, il metodo, la perseveranza, l'amore e l'amicizia... e anche il valore della fatica”.

Da quando ha lasciato il mondo del ciclismo professionistico, nel 2015, Ivan ha scoperto quanto duro sia pedalare in salita, se ne accorge soprattutto nelle uscite con suo figlio maggiore Santiago. “Lui è leggero, scattante. A volte è difficile stargli dietro,” ride. “Quando correvo facevo la salita dello Stelvio in meno di un'ora. Adesso mi ci vogliono un'ora e quaranta minuti, se salgo tranquillo.”

E così ha riscoperto il piacere e la libertà di andare in bicicletta, di guardarsi intorno e fermarsi per una pausa ogni volta che lo desidera. “Le pause sono qualcosa di molto raro quando ti alleni”. “Il mal di gambe - spiega toccandosi i quadricipiti - non è più un’imposizione e dipende casomai dalla mia volontà, non dal programma di allenamento o dalle accelerazioni del gruppo”.

A Ivan però, manca un po’ l’adrenalina che la vita da corridore regala. Ha abbandonato bruscamente le corse alla nona tappa del Tour de France 2015, dopo la diagnosi di tumore ai testicoli. “Non ho avuto tempo per prepararmi mentalmente e fisicamente al momento di dire addio. È successo e basta,” spiega. Il 2015, ricorda, è stato uno degli anni più strani di tutta la sua carriera. Era sicuro di non essersi mai allenato meglio e non di essere mai stato così in forma. "Ma c’era qualcosa che non andava e non riuscivo a capire di cosa si trattasse... il mio corpo non rispondeva” spiega. 

Quell'anno cercò di aggrapparsi al suo ottimismo, finché un giorno, scalando il Terminillo durante la Tirreno-Adriatico dovette fare i conti con la realtà. “Stavamo facendo un’azione importante per Alberto Contador. Per portarlo avanti cercavo di risalire il gruppo e superare alcuni avversari, ma non ci riuscivo. Ero in continua lotta con me stesso. In 30 anni di carriera non ero mai stato lasciato indietro, in salita. Io ero uno scalatore!”

“Quel giorno, quando siamo tornati in hotel ho detto ad Alberto Contador che quello sarebbe stato il mio ultimo anno da professionista.” Poi è arrivata la caduta durante la quinta tappa del Tour ed è lì che ha iniziato ad accusare dolore ai testicoli. La diagnosi tumorale è arrivata solo pochi giorni dopo. Era arrivato il momento di abbandonare le corse. “Devi riempire la tua vita di qualche altra cosa e sgonfiare il tuo ego, altrimenti rischi di crollare,” dice.

Indica ancora una volta quella tela di Verona, che mostra la premiazione del Giro 2006. “Quella lì è una situazione fuori dal comune. Io che pedalo nell'Arena, con 8000 persone che mi applaudono e urlano il mio nome. Dopo la diagnosi mi sono reso conto che raggiungere nuovamente un traguardo del genere sarebbe stato impossibile. Avrò fatto 2000 gare in tutta la mia vita e ne avrò perse 1980. Nel ciclismo vincere, è difficile.”

Quando smetti di allenarti a quei livelli hai due opzioni, mi spiega Ivan. Una è quella di vivere della fama e dei risultati del passato, l'altra è quella di ricominciare da capo e utilizzare ciò che il ciclismo ti ha insegnato in qualche altro ambito. “Avviare una nuova carriera significa imparare certe cose da zero,” dice Ivan. “C’è bisogno di umiltà, determinazione, impegno e disciplina. Tutti valori che un corridore conosce e deve imparare a usare in un nuovo modo”.

Il ciclismo – riflette - gli ha lasciato in eredità “molto più di buoni watt nelle gambe, successo e soldi”. La sua ambizione, l'amore per la sua famiglia e il suo inguaribile ottimismo lo hanno spinto a mettere su la squadra con Alberto Contador, a impegnarsi nel settore immobiliare e a darsi da fare anche nell’agricoltura. “Telefonate, viaggi, incontri... non ho mai un momento libero”.

Un giorno, qualche anno fa, Ivan dice di aver incontrato un contadino che gli ha detto una cosa illuminante: “Sai Ivan, quando i contadini hanno poco lavoro da fare e la stagione del raccolto è finita, trovano sempre qualcos’altro su cui lavorare. Ci reinventiamo sempre, insomma”. Quelle parole gli sono rimaste in mente. Così, dopo il ritiro, proprio come farebbe un contadino nei tempi morti della stagione fredda, Ivan ha iniziato a dedicarsi sempre più al suo campo di mirtilli, fino ad allora tenuto e curato da sua moglie Micaela.

Ha imparato che il prendersi cura delle piante in fin dei conti non è meno faticoso che pedalare. “Quando correvo il mal di gambe dopo cinque ore di allenamento era l'ultimo dei miei problemi. Ma quando lavori per otto, dieci ore al giorno nei campi sotto il sole cocente, raccogliendo frutta in ginocchio, ti ritrovi con dolori alle mani, ai piedi, alla schiena, dappertutto. È dura”.

Ivan guarda fuori dalla finestra. In lontananza i suoi figli giocano nei prati, gridando di gioia. “Lo faccio per loro. Voglio essere un buon esempio per i miei figli.” Mentre mi volto per seguire il suo sguardo non posso fare a meno di notare il modellino di bici poggiato sul tavolo vicino a noi, La ruota anteriore del piccolo suppellettile è un orologio e sono le 11:55, mancano cinque minuti all'orario di chiusura di Oasi Boza.

Gli ultimi clienti della giornata si affrettano pesare quanto raccolto e a pagare i mirtilli. Non era tutto così ben organizzato all’inizio. Nel 2011, l’azienda era più un hobby che un business. La famiglia Basso non viveva nemmeno lì, al campo. “Eravamo timorosi. Non sapevamo se quest’idea dell’auto-raccolta avrebbe funzionato oppure no”, spiega. Inizialmente, la gente che entrava e chiedeva di raccogliere dei mirtill non era molta. Poi con il tempo la voce si è sparsa, certe volte Ivan tornava a casa e aveva una sessantina di persone che raccoglievano frutti nel suo campo. Una piccola bilancia da cucina e un gazebo per ripararsi dal sole bastavano. Così la decisione di organizzare meglio la piccola impresa, è stata presa. L’azienda ora è aperta dalle nove alle dodici, da metà giugno a metà agosto e ci sono alcuni agricoltori che collaborano prendendosi cura della terra.

“Il ciclo di lavorazione inizia a fine agosto,” spiega Ivan. “Entro ottobre, le piante perdono tutti i loro frutti, quindi le potiamo e utilizziamo fertilizzanti naturali in preparazione alla stagione invernale.” Questo è il periodo più tranquillo, in cui si annaffiano le piante regolarmente e si prepara il campo alla primavera. “Ed è in primavera che inizia il duro lavoro,” dice Ivan. “C’è continuamente bisogno di rimuovere le erbacce dalla terra, che altrimenti soffocherebbero le piante.” Le forti piogge della settimana precedente alla nostra visita hanno reso le piante ancor più rigogliose e cariche di succulenti mirtilli. Ne prendo un paio dalla cassa di legno che poggia sul pavimento del capannone e me li porto alla bocca - Ivan mi ha detto che non hanno bisogno di essere lavati, sono biologici e sicuri da mangiare così come sono. I mirtilli di Basso mi sembrano un ottimo antipasto: sodi, succosi e dissetanti.

“Andiamo a pranzo?” mi chiede sorridendo. Saliamo sulla sua Alfa Romeo Stelvio grigia e ci dirigiamo verso Cassano Magnago. Mentre chiacchieriamo Ivan mi dice che ogni ciclista dovrebbe fare lo Stelvio almeno una volta nella vita. “Non importa quanto tempo ci metti e quanto ti sfinisce, bisogna farlo. Una volta al passo ti senti immensamente orgoglioso e soddisfatto. Per un ciclista è la sensazione più bella del mondo e la porti con te per sempre.”

Il “Marconi” è uno dei ristoranti preferiti di Ivan. Da quando ha smesso di correre, ha scoperto di essere un buon gustaio. Non abbiamo prenotato per il nostro pranzo ma i proprietari conoscono Ivan molto bene. Ci salutano con fare amichevole preparano un tavolo per noi in pochi minuti. Ordiniamo un antipasto di pesce a testa poi Ivan suggerisce di condividere un fritto di mare. Dice che qui ne fanno uno delizioso. “Mi piace trattarmi bene adesso,” dice. “Masticare gel e barrette energetiche per 30 anni è stato disgustoso”. Mangiar bene e quanto si vuole è raro nel ciclismo professionistico spiega, sorseggiando un bicchiere di Prosecco. “Vale lo stesso anche per il bere”. Salute. Dopo aver concluso il pranzo e dopo il caffè ritorniamo alla villa. Tutto tace a Cassano Magnago. È come se l’intero paese stesse schiacciando un pisolino. Ancor più silenziosa è la casa di Ivan. Mentre scende la rampa che porta al suo garage, da un’occhiata al campo di mirtilli sulla destra e poi scruta il suo giardino, proprio di fronte alla villa. Non c'è un'anima, solo un silenzioso robot tosaerba che segue una traiettoria immaginaria nel verde.

Proprio accanto al suo posto auto c’è una porta che conduce ad un piccolo bunker, come lo chiama Ivan. Qui sono custodite tutte le bici che ha utilizzato durante il corso della sua carriera, dalla Benatti rossa in acciaio che i suoi genitori gli hanno comprato nel 1984 - la sua prima bici da corsa - al telaio in carbonio che ha usato nella sua ultima gara. Anche nel bunker le pareti sono tappezzate di quadri e di prime pagine di giornali, tra le quali spiccano ancora una volta quelle rosa della Gazzetta dello Sport.

Si tratta di un vero e proprio museo pieno di ricordi e di trofei, di cui Ivan è visibilmente orgoglioso. Ma tutto questo fa parte del passato, come ha detto più volte lui. Dopo poco ci chiudiamo alle spalle la porta del bunker e saliamo di sopra, verso la sua casa, il suo ufficio e il campo di mirtilli. Il sole è ancora alto nel cielo, l’intervista è finita ma per Ivan prima che sia sera restano un sacco di altre cose da fare. 

 

Articolo pubblicato originariamente su Rouleur Italia n. 08

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