In corsa le cadute come la sua sono all’ordine del giorno. Succedono, è normale. Il gruppo è un organismo che gode di vita propria, si espande e si dilata, si contorce, si allarga, si restringe. La velocità di avanzamento al suo interno è fatta da tante micro correnti diverse, proprio come il flusso di un fiume che scorre e s’incanala nel suo alveo. Al Tour de France l’alveo è la strada e il fiume sono i corridori. Il gruppo avanza a velocità uniforme ma ogni corridore viaggia alla propria, frenando e accelerando continuamente. Ciascun elemento del gruppo controlla andatura, posizione ed equilibrio con milioni di micromovimenti, frenate, pedalate e correzioni continue.
La caduta in sé è stata banale: mancavano poco più di 63,5 chilometri dall'arrivo e le ruote di alcuni corridori invece che sfiorarsi soltanto, si sono toccate. Un contatto provoca un altro contatto e un leggero colpo di freni o una sterzata, la quale provoca un altro contatto più deciso e un altro contatto che si trasforma in un ondeggiamento del gruppo e in altri contatti e altre frenate, leggeri cambi di direzione. È successo così, il gruppo andava a bassa velocità, su un rettilineo. Il gruppo è il gruppo, un organismo vivente che inspira e espira. Poi ogni tanto, un colpo di tosse. In tre corridori sono andati giù. Quelli davanti manco se ne sono accorti e quelli dietro si sono allargati e ristretti come un rivolo d’acqua che aggira un ostacolo. Un leggero colpo di freno prima e poi qualche pedalata in accelerazione, e il gruppo era già oltre.
A terra c’erano tre corridori: Lawson Craddock e Pello Bilbao che si sono rialzati subito, e poi ce n’era un altro vestito di azzurro. Maglia Astana. Era proprio lui, Mark Cavendish, quello che non doveva essere. Intorno c’erano già due suoi compagni di squadra che avevano risollevato la sua bicicletta da terra e la tenevano in piedi, pronta, dopo aver controllato che fosse tutto in ordine: freni, ruote, manubrio, catena, era tutto a posto. Erano già pronti a ripartire veloci e a scortarlo in gruppo. Mark Cavendish invece restava a terra, si è immediatamente sollevato e messo a sedere e poi immediatamente sdraiato di nuovo sull’asfalto. Era lì, immobile e si teneva la mano sulla spalla destra, intanto gli altri corridori se ne erano quasi andati tutti, a quel punto.
Sono arrivati i medici, con i loro giubbini blu e le magliette bianche e poi i fotografi, un numero spropositato di fotografi scesi dalle moto, vestiti di nero come corvi. Si sono messi tutti davanti a lui, il mondo di Mark Cavedisch in quel momento era la lente di un obiettivo puntato su di lui. Forse per quello è stato sdraiato fino all’ultimo, per non vedere e per non farsi vedere. Per sparire. Noi guardavamo lui e lui guardava noi, e il tempo correva. Era chiaro a quel punto che tutto stava per concludersi. La clavicola. Rotta. La fine di un’era.
La clavicola che si rompe è la cosa più normale che può succedere quando sei un corridore professionista e cadi a terra con la tua bicicletta. Chiunque ha corso in bici, lo sa. Graffi su gomiti, chiappe, ginocchia, e poi clavicole rotte. Quando si spezza te ne accorgi subito.
Tutto poi, è andato molto velocemente. Le auto che sfrecciavano a lato, le moto, le telecamere, anche i fotografi a un certo punto hanno cominciato ad allontanarsi. Il Tour, non si ferma. Mark Cavendish è stato fatto salire in ambulanza, è facile immaginare il calore interno. Delle grandi gocce di sudore scendevano dal suo viso mentre lo vedevamo inquadrato dalla telecamera, seduto sul sedile posteriore dell’abitacolo con un asciugamano sulle spalle e lo sguardo perso nel vuoto. Tour finito, carriera finita. Nel modo che non ti aspetti.
A quel punto era chiaro che non ci sarebbe stata la 35esima vittoria, quella in cui tutti – ma proprio tutti, Merckx incluso – abbiamo sperato. La carriera di Mark Cavendish finiva lì, sulla D85 all’altezza di La Chapelle Verlaine, a sud-ovest di Limoges, con un record di vittorie da condividere per l’eternità con il più grande corridore di tutti i tempi. In fin dei conti, va bene anche così.
La voce di RadioTour, il sistema di comunicazione interno alla corsa che collega tutti gli addetti ai lavori, tutte le ammiraglie, le moto dei giornalisti e fotografi al seguito della corsa è quella di Sébastien Piquet. Le sue parole, distillate in frasi concise e telegrafiche spesso ripetute più di una volta raggiungono tutti gli interessati in movimento nel convoglio o in attesa sulla linea del traguardo. Dopo aver dato notizia della caduta in cui era stato coinvolto Cavendish, era arrivato il momento di dare la conferma del ritiro.
Nel frattempo, anche se le immagini non lasciavano altre possibilità, noi continuavamo a sperare assurdamente che Cavendish potesse in qualche modo ripartire. Lo avremmo voluto tutti perché in quel momento tutti noi eravamo Mark Cavendish. Ogni uomo e donna su questo pianeta ha un sogno, una missione da compiere, un obiettivo da raggiungere, ciascuno ha il proprio. Non importa quale, non importa se grande o piccolo, importante o meno. Ciò che rende unici noi esseri umani è l’empatia che istintivamente, inspiegabilmente proviamo per qualcuno che sta per riuscire in qualcosa di suo. "Confirmé l'abandon", ha detto con tono tagliente Sébastien Piquet al microfono della radio. "Abbandono del numero centonovantuno. Abbandono del numero centonovantuno”, ha ripetuto. Mark Cavendish era fuori dalla corsa, e anche noi in un certo senso.
Nel frattempo le immagini insistevano su di lui seduto all’interno dell’ambulanza, ancora con il casco indossato e l’auricolare infilato nell’orecchio tenuto fermo da un pezzo di nastro adesivo. Poi qualcuno ha dato una spinta al portellone scorrevole dell’ambulanza e lo ha chiuso. Le immagini sono tornate bruscamente sul gruppo, con una ripresa dall’elicottero e poi un’altra frontale presa dalle moto. Il Tour continua. Nel frattempo l’ambulanza con Cavendish si dirigeva verso l’ospedale di Limonges per le cure del caso.
È finita così, in modo inaspettato la carriera del più grande velocista di tutti i tempi. Forse nemmeno noi sappiamo quanto avremmo avuto bisogno di tifarlo e di continuare a sperare in una sua vittoria fino all’ultimo, fino a Parigi. Ci era andato vicino, quest’anno era già stato sesto, quinto e secondo. Tutti noi abbiamo bisogno di sperare nel successo, se non il nostro quello di qualcun altro. Nel ciclismo quando il corridore per cui tifiamo vince, vinciamo anche noi. È così che funziona. È per questo che amiamo il ciclismo: perché anche se non abbiamo mai vinto niente, ci fa sentire umani. Parte di qualcosa.
Che peccato, Mark.