Rouleur Explore: Ventimila chilometri sotto i monti

Rouleur Explore: Ventimila chilometri sotto i monti

Ai piedi del Monterosa c’è un paradiso tutto da scoprire per il ciclismo su strada. Niente valichi alpini ma in Valsesia e sul Lago d’Orta le possibili combinazioni per pedalare nel silenzio, sono infinite.


Questo articolo è stato realizzato in collaborazione con il Consorzio Monterosa Valsesia.

Testo e Foto di: Chiara Guglielmina

Anche il ciclista più rodato ricorda il momento in cui ha tolto le rotelline alla prima bicicletta. Io pedalavo sulla rampa del garage di casa mia. Papà mi stava spingendo in salita tenendo il sellino con la mano ben saldo e quando la pendenza è diminuita lasciando spazio al piano, ha allentato la presa. C’era anche mia mamma, lì vicino a guardarmi. Mi sono sbilanciata a destra e a sinistra, svirgolando e facendo il pelo alla siepe. Poi ho dato qualche colpo più deciso ai pedali aumentando la frequenza, ho corretto la traiettoria con il manubrio e ho preso il largo oltre il cancello. Avevo quattro anni e ricordo di aver passato il primo pomeriggio di ciclismo della mia vita a andando avanti e indietro per quei duecento metri di strada nel bosco fuori casa. Dalla prima volta che ho pedalato in poi, fitte faggete e profumo di muschio hanno accompagnato tutte le mie pedalate in Valsesia. La nostra valle è stretta e chiusa in cima da pendii ripidi e da grandi montagne che sono una scuola difficile per iniziare a sciare, camminare o pedalare. Per questo in Valsesia è meglio togliere le rotelle presto, possibilmente su una salita: perché l’ambiente è severo. Le strade non sono perfette ovunque ma ognuna ha un buon motivo per essere percorsa. C’è un fiume, il Sesia, che solca la valle alimentato da acqua trasparente proveniente dai ghiacciai. Il fiume s’incanala in gole profonde, si schiaccia su rocce e grandi massi dopo ampi salti nel vuoto e si raccoglie infine in conche tranquille dove i pescatori vanno in cerca di trote, e i bambini giocano a far saltellare i ciottoli sull’acqua. Tutto intorno boschi e verde, grandi alberi di specie diversa in base all’altitudine. Può capitare di pedalare tra castagneti, frassini e faggi, o tra larici antichissimi alti oltre trentacinque metri e vecchi centinaia di anni, che proiettano un’ombra rada per le mandrie al pascolo.Man riding bike along the promenade

Giorno 1 - In viaggio verso l’orizzonte seghettato

Ho la fortuna di pedalare nella valle più verde d’Italia ma oggi, nello zaino che ho preparato e appoggiato vicino alla porta di casa, ho una fotocamera e diversi obiettivi. La sveglia è suonata alle 6:30 e la luce che entra di taglio sul tavolo dove sto facendo colazione tinge la tovaglia di rosa. So che sarà una bella giornata e anche se amo il mio lavoro da fotografa, invidio per un attimo l’outfit di Mattia, che si sta preparando per pedalare. A entrambi piace sentire la lycra attillata e leggera sulla pelle e l’emozione di una giornata in bicicletta che sta per cominciare.

L’incontro con gli altri è sul Lago d’Orta. Per godere appieno delle salite valsesiane abbiamo scelto di arrivarci da lontano, come in un vero e proprio viaggio d’esplorazione dove la meta è distante ma raggiungibile e la puoi individuare scrutando l’orizzonte, non soltanto vederla sullo schermo dello smartphone grazie a un’app. Il luogo prescelto per cominciare la nostra pedalata è l’agriturismo la Darbia sul Lago d’Orta che ci accoglie in un’oasi verde dove l’ozio e il relax, anziché essere considerati un grave peccato, viene incoraggiato e supportato in ogni modo. Tutt’intorno vigneti, profumi di una raffinata cucina di campagna e il Monte Rosa riflesso sullo specchio d’acqua dell’elegante piscina. A pedalare ci sono Veronica, Mattia ed Emilio. Negli loro occhi e nelle loro voci colgo una nota entusiasta che fa da preludio ai preparativi prima della partenza.

All’ombra del bosco dove ci prepariamo e dove il sole non è ancora arrivato, l’aria è ancora fredda. Prima di pedalare un caffè bevuto al tavolo sotto un portico fatto con assi di legno deformate dal carico di enormi piante rampicanti, offre il primo scorcio sulla strada che affronteremo in bicicletta. Tutto intorno a noi orti e angoli di un giardino ben curato in cui sarebbe bello fermarsi a oziare.

Quello che ci apprestiamo a fare è un insolito viaggio in bicicletta in cui i ciclisti sono un equipaggio pronto a esplorare pedalando su strade antiche, bellissime e perlopiù poco frequentate, circondate da scenari misteriosi che in qualche modo raccontano del passato e che anticipano il futuro. Un po’ come in un romanzo di Jules Verne, nel nostro procedere i paesaggi sono prima immaginati e poi vissuti. C’è qualcosa che ha a che fare con la fantascienza, nel pedalare in Valsesia, probabilmente si tratta della necessità di immaginare quello che verrà dopo, salendo di quota.

Veronica è valsesiana, la conosco già ma è la prima volta che la vedo pedalare da vicino. Occhi verdi come la vegetazione autunnale che avvolge ogni cosa intorno a noi, i lunghi capelli castani le cadono raccolti in una treccia appoggiandosi sulle spalle. Non siamo ancora in Valsesia, la prima salita che affrontiamo fa parte di quel preludio esplorativo che serve a solleticare l’immaginazione e la fantasia. Siamo diretti verso la Madonna del Sasso, sopra Alzo. Dalla Darbia i primi tornanti vanno affrontati in discesa, con il sole è ancora basso all’orizzonte e l’ombra che raffredda la pelle nuda di gambe e mani. Credo che a nessun ciclista piaccia partire in discesa. Anzi, se in questi anni ho capito qualcosa di ciò che sta dietro alla voglia di pedalare e fare fatica ricurvi come armadilli avvinghiati al manubrio, è che la salita e le andature controvento sono sempre la migliore situazione per sentirsi al posto giusto.

Dalla bellissima piazza di Orta, popolata soltanto da abitanti locali indaffarati nella spesa quotidiana nelle botteghe del paese, attraversiamo il lago in battello. Mattia avrebbe preferito circumnavigare il lago pedalando, glielo leggo negli occhi, ma ieri sera gli ho spiegato che sarebbe stato impossibile rimanere nei tempi e percorrere tutto il giro in programma scattando anche delle foto.

“Se in un posto ci puoi andare pedalando e sotto il sedere hai una bicicletta, non vedo il senso di non adoperarla”, aveva detto tentando una volta ancora di convincermi. Parole da vero ciclista. “Dobbiamo arrivare fino a Fobello prima del buio”, gli avevo risposto. “Va bene”, aveva concluso rassegnandosi e facendo spallucce. “Comunque è sempre meglio circumnavigare, sempre meglio”, continuava a borbottare riempiendo le borracce al lavandino.

Di Mattia vi basti sapere che è il mio compagno nella vita da oltre sette anni, non lo descrivo dettagliatamente perché sarei di parte. Posso però dirvi però che nel tempo, dopo qualche incomprensione iniziale, ho accettato l’evidenza di essere posizionata nella gerarchia delle sue priorità grossomodo alla stessa altezza della bicicletta e della pesca. L’ho capito un giorno sulla salita dell’Alpe d’Huez, seguita poco dopo da quella sul Col du Galibier. Quella sera in montagna avevamo cenato con un salmerino pescato da lui nella Romanche. Per amarsi bisogna mettersi nei panni dell’altro e pedalare molto insieme, io credo.

Il primo sforzo richiesto alle gambe dopo la comoda traversata del lago in battello è bizzarro, i tornanti sono molti rispetto alla lunghezza e al dislivello della salita: da Alzo ci sono poco meno di quattro chilometri per un dislivello di circa 260 metri per arrivare al santuario della Madonna del Sasso, costruito sopra un grande strapiombo granitico ben visibile anche da lontano.

La strada è una stretta striscia d’asfalto ben posato, illuminata a chiazze dal sole che  s’intrufola tra le chiome dei faggi e dei castagni. Il santuario del ‘700 in stile barocco, che segna la fine del primo sforzo, poggia la sua base su una balza di granito bianco che si sporge coraggiosamente in avanti regalando una vista unica sul Lago d’Orta. Per secoli quella roccia è stata usata come pietra da taglio da utilizzare per l’edilizia e le costruzioni mentre il piazzale, denominato “il prato della tela” che noi attraversiamo su due ruote per andare a vedere il panorama, era il luogo in cui anticamente le donne del paese venivano a candeggiare e curare al sole la tela fatta in casa. Dopo una piccola sosta, il tempo di guardarci intorno e scattare qualche fotografia, ripartiamo verso Arola.

Qui, in questo secondo tratto, la salita esposta a sud si fa più ripida e il sole comincia a scaldare, si suda abbondantemente. Ancora quasi cinquecento metri di dislivello e si entra ufficialmente in Valsesia. Il Passo della Colma a 942 metri di quota definisce la linea di confine tra le province di Verbania e Vercelli e per me, soprattutto, il vero punto di passaggio tra lago e montagna. È un po’ come attraversare il portale magico di un videogioco che consente di accedere al livello successivo, in un mondo dove la natura si fa percepire più potente e i dislivelli sono più importanti. 

L’asfalto irregolare rende la fatica più interessante, si sale ininterrottamente per otto chilometri al 6% di pendenza media, con un breve tratto bastardo di cento metri, proprio dopo il paese di Arola. I tre pedalano regolari, Emilio e Mattia preferiscono alzarsi sui pedali usando rapporti più duri, Veronica invece preferisce rimanere seduta tenendo una pedalata più agile. Ed eccolo finalmente, il passo. Oltre quella grande gobba che rappresenta la fine della scalata, ci mettiamo alle spalle il Lago d’Orta per andare verso il Monte Rosa e le salite valsesiane.

Scendendo in discesa, non riesco a non pensare al 28 maggio 2021 e alla 19° tappa del Giro d’Italia. Quella volta per fotografare i corridori mi ero appesa con corda e imbrago alla parete rocciosa che sovrasta Varallo. Da lì i corridori, piccoli puntini colorati, si allungavano e accorciavano come un serpente che si contorce assecondando l’asfalto. Un rettile al sole che segue un fondovalle tortuoso tra colline verdi come la foresta amazzonica. L’ho detto che Jules Verne avrebbe potuto ambientare alcune delle sue storie in Valsesia. “Ventimila chilometri sotto i monti” o “Viaggio al centro della montagna”, sono titoli che suonano benissimo, no? È un’immagine quasi onirica, quella dei ragazzi che scollinano e si lasciano andare giù per la discesa. Con l’occhio nel mirino della macchina fotografica che esclude il superfluo, vedo una linea netta disegnata tra il cielo e la strada e in mezzo un solo ciclista. Emilio pedala sull’asfalto scuro e la sua barba bianca e folta fa da contrasto e da raccordo con il cielo chiaro, tenendo in equilibrio l’immagine. Percorriamo la strada in pavé che attraversa il centro storico di Varallo, passando a fianco alla solenne scalinata che collega la piazza all’architettura luminosa della Collegiata di San Gaudenzio.

Ci lasciamo alle spalle la città d’arte e ci infiliamo in Val Mastallone, una delle tre vallate principali della Valsesia che è particolarmente bella da pedalare in estate, quando nel pomeriggio l’ombra refrigerante e la brezza di monte risultano particolarmente apprezzate. A dominare lo spazio del fondovalle ancora l’acqua, in tutte le tonalità possibili dell’azzurro e del blu. In Valsesia ovunque i ghiacciai o i laghi in quota alimentano i corsi d’acqua che sono parte essenziale del paesaggio.

La salita è magnifica e piuttosto lunga ma sempre pedalabile, sono 17 chilometri con una pendenza media del 2,4% con 426 metri di dislivello. È autunno e gli alberi, con le foglie per metà già virate verso le tinte dell’arancione e del giallo, tratteggiano un paesaggio da favola. Chi lo ha detto che pedalare in montagna nelle stagioni intermedie come l’autunno o la primavera, non è bello? Dalla strada, che costeggia il corso d’acqua, si notano spiagge di sabbia sottile, chiesette riparate nel bosco e antichi ponti in pietra che consentono di passare da una parte all’altra del fiume. Quello della Gula, sospeso su un baratro di circa trentacinque metri sopra il torrente, è un antico ponte in pietra del che incanta con il suo affaccio attraente e spaventoso. Una vertigine ubriaca e una passerella voluta dal diavolo, dice la leggenda.

Nessuno sa esattamente il periodo di costruzione del ponte, potrebbe essere romano oppure del ‘700. Il GPM è a Fobello, dove la natura diviene più morbida e le ville signorili interrompono l’atmosfera primitiva che accompagna ogni colpo di pedale lungo la valle.

Giorno 2 - Sospesi tra passato e futuro.

La prima volta che ho affrontato la salita dell’Alpe di Mera ero con mio padre, avevo sedici anni e pedalavo da pochissimo tempo. Talmente poco tempo da pensare che arrivare fin lì sotto in automobile, per evitare i primi ventitré chilometri pianeggianti partendo da casa mia, fosse una grande idea. Sulla prima rampa dopo Scopello, il paese da cui comincia la vera salita, mio padre già zigzagava
per ridurre la percezione della pendenza e io violentavo il manubrio tirando e spingendo con le braccia, nel tentativo di scaricare le gambe già dure. Fu una delle salite più ignoranti della mia vita. Con l’approccio giusto, tuttavia, il gioco cambia.

L’asfalto imperfetto a causa della neve invernale diventa una sfida piacevole e anche gli strappi più infami sono compensati dalla quiete che avvolge un’ascesa unica, in ambiente silenzioso. Nonostante l’arrivo del Giro d’Italia del 2021, quella all’Alpe di Mera rimane una salita per pochi, solitaria e ancora non proprio conosciuta. Una volta conquistata la cima, il panorama del Monte Rosa che si trova proprio davanti, è impagabile.

Emilio, Mattia e Veronica attaccano la salita chiacchierando mentre le prime luci del mattino disegnano chiari e scuri sulle loro silhouette, io ci gioco con l’obiettivo. Il viaggio è lungo nove chilometri ma la pendenza si fa sentire con una media del 10% e uno strappo ripido che sfiora il 20%. In cima, c’è tempo per una spremuta d’arancia e un espresso al bar della stazione di sci, e poi di nuovo in sella verso la meta finale, Alagna. Mentre in auto mi affanno per non farmi staccare in discesa, mi accorgo che è proprio così, sudando sulle montagne e andando a ruota libera in discesa – sulla bici oppure sugli sci - che ho imparato a conoscere la geografia delle montagne che ho intorno. Da Scopello, inizia una delle salite iconiche della Valsesia, quella che porta a quei villaggi remoti ai piedi del versante sud del Monte Rosa, il più selvaggio. Una scia disgiunta di borghi Walser, fatti di case in legno, pietra e tetti di ardesia, abitate da famiglie di montanari autentici, si snoda lungo il fiume Sesia fino ad Alagna. Uomini e donne qui, in questa valle, sono custodi di una lingua nella quale parole prese dal tedesco antichissimo sono state forgiate dal tempo fino a formare un dialetto puro, il Titsh.

Si tratta di una strada di montagna insolita, lunga diciotto chilometri con un’ascesa di 540 metri, partendo da Scopello. Lungo la strada, all’altezza di Riva Valdobbia, una visita alla chiesa di S.Michele con un enorme affresco del Gudizio Universale, è d’obbligo. Non ci sono numeri a segnare i tornanti, è un’ascesa gentile quella verso il paese ai piedi del Monte Rosa, da godere senza badare a numeri, tempi o record da battere. La salita, già da Mollia, è un viaggio fatto per ammirare la Punta Gnifetti a 4554 metri, con in cima il suo parallelepipedo scuro rassomigliante a una corona, che è il rifugio Capanna Regina Margherita, il più alto d’Europa. Una volta ad Alagna poi, la ricompensa per lo sforzo compiuto per la salita è impagabile. Nonostante l’impossibilità di valicare in un’altra valle - una possibilità che noi ciclisti ricerchiamo sempre - la quiete e la bellezza ancora intatta del villaggio, privo di grandi costruzioni e obbrobri edilizi che troppo spesso si vedono sulle Alpi, incitano a esplorare i dintorni continuando a pedalare. Se siete abituati a circolare sulle strade trafficate e super frequentate dei valichi alpini, beh, girando in bici qui potrete godere della bellezza della seconda montagna più alta dell’arco alpino, nella quiete irreale di parecchi decenni fa.
Il sole è già basso all’orizzonte, appena il cono d’ombra avvolge il paese, l’aria diventa frizzante. In fila, uno dietro l’altro come bambini che camminano in fila indiana si torna a valle, le biciclette avanzano senza la necessità di pedalare in un mondo confortante che va in discesa al 2%. Non c’è davvero nulla in Valsesia che impedisca di percorrere quei ventimila chilometri sotto i monti.
Il mio consiglio è quello di pedalare mescolando tra loro la infinità di combinazioni possibili, dimenticando l’ossessione per il valicare e ricordando invece il bambino dentro di noi, quello che leva le rotelle e pedala avanti e indietro nel viale fuori casa scoprendo la meraviglia dello stare in equilibrio. Come dice un grande pittore: “La bici incarna il mito dell’uomo libero.” E la Valsesia, ve lo dico io, è un’antica Terra di libertà e di ribellione.

 

Un ringraziamento speciale anche a Santini e Kask



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