Testo di Emilio Previtali
Ciò che amiamo delle gare di ciclismo, è l’imprevedibilità. A vincere le corse non è sempre e soltanto il corridore organicamente più dotato, spesso accade che a primeggiare invece che il più forte sia l’atleta più intelligente, il più scaltro, il più paziente, il più furbo o il più consapevole dei propri mezzi. Qualsiasi corridore può mettere nel sacco un avversario più forte e fin dopo la linea del traguardo, nel ciclismo, nessuno può dirsi certamente battuto. Le corse sarebbero terribilmente noiose se a vincere fosse sempre e soltanto il corridore più forte, sapremmo già esattamente cosa può accadere prima di ogni gara.
È proprio grazie a questa imprevedibilità e al gioco tattico, o a quello delle scie, che il ciclismo è decisamente più entusiasmante da guardare in TV rispetto ad altri sport di lunga durata, le maratone ad esempio, nelle quali la forza fisica e il talento dei singoli tengono un po’ in ostaggio la dinamica di corsa e anche lo spettacolo.
Nelle corse di ciclismo su strada la forza e la forma fisica rappresentano soltanto il presupposto iniziale necessario alla vittoria, poi sono la strategia e la tattica unite alla gestione dell’intensità nell’arco della gara a fare la differenza, perfino nelle corse a cronometro nelle quali i corridori lottano da soli contro il tempo. Se così non fosse, se a contare più dei watt e del VO2max misurati in laboratorio non ci fosse anche la capacità mentale degli atleti, nel 2023 non saremmo ancora qui a entusiasmarci per degli uomini e delle donne che spingono al massimo sui pedali e sgomitano per aggiudicarsi la vittoria in strada.
L’ultimo Tour de France è stato un duello avvincente lungo tre settimane tra Tadej Pogačar e il vincitore finale Jonas Vingegaard, nessuno di noi – nemmeno gli scienziati che misurano le performance di questi atleti in laboratorio – sarebbe stato in grado di dire chi dei due è fisicamente migliore dell’altro.
Cosa significa essere il migliore? E quanto conta la forza mentale?
Se lo chiedeste a Eddy Merckx, uno che senz’altro di ciclismo se ne intende, vi direbbe tra le altre cose che essere un campione di ciclismo ha a che fare con la capacità mentale di tenere il ritmo senza mai mollare, in ogni contesto in cui il corridore si viene a trovare.
Il rapporto del ciclismo con il nostro cervello va ben oltre l'elaborazione di piani tattici per vincere le gare. Il ciclismo apre la mente perché si svolge nel mondo reale, tra altri esseri umani che a volte sono alleati e altre volte avversari, o altre volte ancora tutte e due le cose insieme. Andare in bicicletta non soltanto ci spinge a conoscere cose come la geografia, la topografia, la politica, la cultura e la fisica, ma ci spinge a conoscere noi stessi e gli altri che abbiamo intorno. E poi,il tempo trascorso in bicicletta, è tempo per pensare. Non c'è niente di meglio di una lunga pedalata per pensare ai fatti propri o al contrario, per riuscire a non pensare proprio a niente.
In questo numero di Rouleur abbiamo esplorato il rapporto tra il ciclismo e la mente parlando con atleti come Filippo Ganna, Mark Cavendish e Lachlan Morton, e parlando con le persone che normalmente lavorano dietro le quinte o hanno il compito di mettere gli atleti in condizione di produrre performance di alto livello. Il ciclismo è un'attività complessa, fisica ma anche mentale.
Se così non fosse, se per vincere il Tour de France o per scovare chissà dove le energie necessarie per migliorare il nostro personal best sulla salita dietro casa bastasse soltanto attenersi ai watt indicati dal powermeter che abbiamo sul manubrio della bici, il ciclismo non sarebbe una cosa così magica, misteriosa ed interessante.