Io, che non sono io

La separazione del corpo sullo spirito arriva dai greci antichi, anche se furono loro in origine a far vivere al corpo umano e alla prestazione sportiva la sua epoca d’oro, arrivando a idealizzare l’atleta come un semidio. La differenza vera e propria tra corpo e spirito comincia a diventare evidente con Socrate e Platone e infine aumenta esponenzialmente con il cristianesimo: la separazione totale tra corpo e anima comincia nel momento in cui la sessualità diviene qualcosa di negativo, piacere del corpo e necessità di procreare, divino e umano, non possono più coesistere. Oggi questa separazione è diventata una vera e propria preclusione e si è estesa anche ad altri ambiti dell’individuo: io posso essere un bravo ciclista professionista oppure in alternativa un intellettuale, non posso essere tutte e due le cose insieme; o se lo sono - perché io sono entrambe le cose - devo per forza essere nell’immaginario delle persone l’eccezione che conferma la regola, il ciclista è corpo e il filosofo è mente. I giornalisti in genere non riescono a parlare di me nei loro articoli senza parlare di un altro che catalogano come me, Laurant Fignon ad esempio, un altro atleta-filosofo nel loro immaginario e nell’immaginario delle persone per cui scrivono. Che io sono uno ciclista-filosofo è quello che il pubblico adora sentirsi dire. Io per la maggior parte di loro, per molti giornalisti e per molti tifosi, non sono io. Io devo per forza essere come qualcun un altro, Laurant Fignon e devo recitare la sua parte, così come Remco Evenepoel non può essere Remco Evenepoel ma deve nella testa delle persone rappresentare il nuovo Merckx; e se c’è uno scalatore in gruppo non può essere semplicemente uno scalatore bravo ma deve essere necessariamente un nuovo Pantani. Esattamente come Pantani veniva continuamente accostato ad altre leggende del passato quando era corpo e non poteva essere soltanto Pantani. Ora che Pantani non è più carne ma spirito, sono gli altri ciclisti contemporanei ad essere paragonati a lui e alle sue imprese, non è soltanto una questione di epoche e di tempo che passa. È questione di narrazione. Il ciclismo e l’epica del ciclismo non sono basati sulla realtà e sulle persone ma sui personaggi, su una serie di archetipi che affinché il racconto sia coerente vanno assolutamente rispettati. In un certo senso anche il Tour, non è soltanto il Tour, non è una corsa di bici. È una specie di grande recita collettiva, una liturgia nella quale ciascuno di noi - corridori, giornalisti, tifosi - non può fare altro che recitare la propria parte. La mia battaglia invece, nel mio piccolo, è questa: quando scrivo, mi piace essere giudicato come scrittore. E quando sono in corsa, mi piace essere giudicato il base alla qualità delle mie performance sportive. Tutto qui.

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