Gioia di pietra

Gioia di pietra

Si tratta di uno strana cosa da venerare: un grosso blocco quadrangolare di pietra grigia, posto accanto a migliaia di altri grossi blocchi di pietra grigia. Una strada, una cosa inanimata. Il Nord, ha un’anima di pietra. Siamo dei feticisti del fango e della fatica, per noi ciclisti la parola pavè evoca timore, paura ed eccitazione. 


Articolo pubblicato originariamente su Rouleur Italia n. 08

Testo originale di: Paul Maunder
Fotografie di: Camille McMillan

Un ciottolo, che non è un ciottolo

La maggior parte delle volte in cui parliamo di pavè, in realtà, stiamo usando una parola troppo generica. C’è il ciottolato, ad esempio. I ciottoli – cobbles nella lingua inglese - sono pietre di forma naturale, squadrate o tondeggianti, raccolte dai letti dei torrenti e dei fiumi. Sono grossi sassi di varia forma, a seconda della pietra che li costituisce, che se posati in serie su un tappeto di sabbia possono creare una strada molto resistente e ben drenata, ideale per il transito di cavalli e carri. Oltre al vantaggio della durata e della resistenza, sulle strade in pietra, c’è anche qualche svantaggio, tipo quello che la strada diventa molto rumorosa, tanto che in passato davanti alle case di cura o ai conservatori si gettava della paglia a terra per tentare di attutire il suono e non svegliare i malati o disturbare i musicisti. Oltre a questi svantaggi il ciottolato, il lastricato e il pavè – tutte varianti delle strade in pietra - sono terribilmente scomodi da percorrere in bicicletta. Lo diciamo oggi che esiste l’asfalto, ovvio.

Le pietre di Roubaix e delle Fiandre sono i setts, blocchi di roccia che è stata estratta e tagliata in pietre cubiche o quadrangolari più o meno regolari. I setts delle strade del nord provengono quasi esclusivamente dalle cave di Lessines, pochi chilometri a sud di Geraardsbergen, in Belgio. Dal 1862 vi si estrae la pietra di porfido, una roccia ignea formata da un magma fluido 500 milioni di anni fa, la prima vena fu scoperta e cavata a Lessines già nel XV secolo. Una volta stabilito che la sua durezza e la sua resistenza la rendevano perfetta per la costruzione di strade, gli abitanti del luogo reclutarono delle bande di detenuti per svolgere il duro lavoro di cavatura. 

Presto i blocchi grigi delle cave di Lessines coprirono le strade di tutto il nord Europa, i viali di San Pietroburgo e i Champs-Élysées, anche quelli fatto con lastre di porfido ad incastro. I commercianti belgi che partivano da Anversa per gli Stati Uniti depositavano nella pancia delle loro navi i cubi di pietra come zavorra, abbandonandola nel porto di New York in cambio delle merci che riportavano in Europa. I blocchi di pietra vennero usati in seguito per pavimentare le strade di SoHo, nel West Village, a Tribeca e nell'Holland Tunnel. Di conseguenza, i setts divennero noti negli Stati Uniti come Belgian block. 

A parte i progetti di ripristino del patrimonio stradale, le pietre delle cave di Lessines non sono molto richieste, al giorno d'oggi. La produzione industriale è cessata negli anni '50. Recentemente nella zona ci si è concentrati sulla produzione di ghiaia per grandi opere infrastrutturali, tra queste il tunnel della Manica e le linee ferroviarie TGV che attraversano la Francia. 

 

 

Grazie all’Impero Romano

Lo scorso ottobre ero a Roma in vacanza con la mia famiglia. Tra un gelato e un altro, camminando per strada, ho studiato un po' di storia. Sotto il sole autunnale ho passeggiato tra le antiche rovine dei Fori Imperiali e al Colosseo. Alcune delle strade originali sono ancora visibili ed erano costruite con enormi pietre. Lisciate e lucidate da milioni di scarpe di turisti, queste lastre in pietra erano così grandi che passarci sopra dava più ’impressione di una camminata sul greto di un fiume, tra uno sasso e l'altro.

I romani furono la prima civiltà a progettare e costruire strade in modo sistematico. Strade e sentieri acciottolati esistevano già prima dei romani, i primi esempi di strade in pietra sono in Mesopotamia, Babilonia e a Creta ma si trattava in quei casi principalmente di brevi strade cerimoniali che collegavano palazzi e templi tra loro. Per gli antichi romani invece, le strade erano l’apparato circolatorio dell’Impero. Al suo apice la rete stradale si estendeva per oltre 80.000 kilometri attraverso l'Europa e l'Asia Minore. 

I costruttori di strade romani non erano secondi a nessuno. Per costruire una strada importante iniziavano a scavare fosse di drenaggio parallele tra loro a dieci metri di distanza l'una dall'altra. La terra scavata veniva poi usata per costruire una base tra i fossati, sopra ai quali venivano aggiunti cinque strati - sabbia, roccia frantumata, ghiaia in malta di cemento, ancora sabbia e ghiaia cementata - e infine le lastre di pavimentazione proprio come quelle che si possono ancora ammirare ai Fori Imperiali di Roma. La strada finita aveva due carreggiate, dei cordoli in pietra e dei marciapiedi rialzati per i pedoni, su entrambi i lati. Se la bicicletta fosse stata inventata allora, i romani si sarebbero fatto trovare pronti con delle superbe piste ciclabili. I romani anno stabilito lo standard nella costruzione delle strade e dopo la caduta dell'impero è dovuto passare più di un millennio prima che qualcuno ricominciasse a costruire delle strade fatte così bene.

Durante la rivoluzione industriale gli ingegneri sperimentarono per le pavimentazioni stradali varie miscele di sabbia, ghiaia, rocce, bitume e persino legno. Nell'Europa del Nord, a causa della pioggia e della umidità, il drenaggio era il problema principale. La durata e la stabilità delle superfici impregnate d’acqua venivano inevitabilmente messe a dura prova con il passaggio di carri e mezzi pesanti. Nella seconda metà del XIX secolo la proliferazione di un nuovo meraviglioso mezzo di trasporto - la bicicletta - fu il catalizzatore per una rinascita nella costruzione di strade. Le pietre quando erano incastonate nella sabbia e posate a regola d’arte fornivano superfici forti, ben drenate e (relativamente) lisce per ciclisti, cavalli e per le prime automobili. In Belgio i cavatori di Lessines avevano un sacco di lavoro da fare. 

 

Le ragioni del mito

Le due più famose corse ciclistiche sul pavé (la parola esatta sarebbe quindi cobbles, cioè pietre di forma squadrata ma irregolare) sono la Parigi-Roubaix e la Ronde van Vlaanderen. Oggi le equipariamo definendole genericamente corse sulle pietre, ma sono due cose diverse tra loro. Anche l'impulso per la loro creazione, fu molto diverso. La Parigi-Roubaix fu concepita nel 1896 come un modo per promuovere il velodromo appena costruito a Roubaix; il percorso, prima di concludersi proprio dentro al velodromo, percorreva alcune strade agricole in pietra. La corsa ebbe un successo immediato, con il pubblico e gli organizzatori che notarono che il pavé regalava al finale della corsa un certo grado di imprevedibilità. La maggior parte delle strade della zona erano sterrate, in quegli anni. Quelle lastricate, molto usate in passato dal traffico industriale e agricolo ma più costose e laboriose da mantenere erano in stato di abbandono, con pietre mancanti, grandi buchi e carreggiate cedevoli. Era proprio lì che bisognava portare la corsa. Far passare la gara in quei settori per gli ultimi 60 chilometri fu un vero colpo di genio, gli organizzatori crearono un format che fornisce ancora oggi, oltre un secolo più tardi, suspense e divertimento per gli spettatori. 

Il Giro delle Fiandre nacque invace da una idea di Karel van Wijnendaele, nel 1913. In quel momento storico le Fiandre erano molto meno ricche della vicina Vallonia. Van Wijnendaele, giornalista sportivo, voleva creare una gara che facesse da catalizzatore per la comunità fiamminga e che fungesse da simbolo per la sua rinascita. La gara si sarebbe svolta interamente su strade fiamminghe, che si dava il caso fossero in pietra. Al lancio della corsa e nei primi anni della sua storia nessuno la chiamava classica del pavé, come invece facciamo oggi. A quell’epoca pedalare sulle pietre sembrava essere il massimo del lusso rispetto a percorrere le strade sterrate e fangose che si trovavano un po’ in tutto il Belgio. Le strade a quei tempi – è bene ricordarlo - ancora non venivano asfaltate.

La svolta definitiva, la scoperta della propria identità sportiva, avvenne a metà del ventesimo secolo. In particolare per la Parigi-Roubaix il momento decisivo per trovare la propria vocazione fu il 1968, un anno culturalmente importante per la Francia in termini molto più ampi, non soltanto per quanto riguarda il ciclismo. L'olandese Peter Post aveva vinto quattro anni prima la corsa con una velocità media record di oltre 45 km/h. C'erano meno di 30 km di ciottoli sul percorso, quell'anno. L'organizzatore Jacques Goddet rimase inorridito. Non voleva una gara veloce su strade asfaltate, che senso aveva una gara in pianura sempre più veloce e sempre più uguale alle altre? Nell’autunno del 1967 mandò il suo ricognitore Albert Bouvet nella campagna francese con un solo compito: trovare più strade in pietra. 

Piuttosto che sprecare il suo tempo vagando senza meta, Bouvet individuò l'uomo giusto a cui chiedere: Jean Stablinski. Il campione del mondo del 1962 aveva lavorato nelle miniere di carbone di Arenberg, vicino a Valenciennes, ed era un amico. Fu lui a mostrare a Bouvet molti tratti di strada acciottolata poco conosciuti, tra cui la Trouée d'Arenberg, un settore oggi tra i più celebri. Quando, dopo le prime edizioni durissime, gli fu chiesto se avesse mai pedalato prima su quelle strade in bicicletta, magari in allenamento, Stablinski scosse la testa. “Troppo difficile”, disse. Più avanti negli anni, in un’ intervista, dopo che quei settori diabolici erano stati incorporati nella corsa, ammise ai giornalisti che si sentiva in colpa per aver segnalato quei tratti di strada. 

Per quanto riguarda il Giro delle Fiandre invece, nel 1913 un terzo del percorso era lastricato. Dopo la seconda guerra mondiale molte strade furono asfaltate. Preoccupati del fatto che le strade moderne avrebbero ucciso la corsa, gli organizzatori si lanciarono in una specie di caccia al tesoro dei tratti di porfido. Si rivelò un esercizio fruttuoso, tra gli altri strappi furono scoperti il Muur van Geraardsbergen, il Bosberg e l'Oude Kwaremont. Ora il pavè è un vero patrimonio del ciclismo mondiale e un’ attrazione turistica belga protetta da leggi e regolamenti.

Uno dei settori più famosi del percorso moderno è la salita del Koppenberg. Questo tratto ripido, stretto e grossolanamente acciottolato, incassato in uno spazio agricolo fiancheggiato da alberi, è stato teatro di attacchi leggendari ed epicentro di telecronache indimenticabili. Dopo il rocambolesco incidente del 1987, quando il corridore danese Jesper Skibby cadde dalla sua bici e vide impotente l'auto del direttore di corsa passarci sopra, il Koppenberg fu tolto dal percorso. “Troppo rischioso” fu la motivazione. Motivati a non perdere il carattere speciale che quel tratto dava alla gara però, gli organizzatori spesero la cifra corrispondente a 500.000 Euro per importare nuovi ciottoli dalla Polonia e ripavimentare la superficie in modo che tornasse a essere percorribile.

L’inferno del Nord

Circa a metà di Una domenica all'inferno, il classico film documentario del 1976 sulla Parigi-Roubaix, l'attenzione passa dal caos sfocato della corsa, alla osservazione di un gruppo di fan in attesa sul ciglio della strada. La telecamera passa da una donna di mezza età in vestito nero elegante che gioca a carte con un amico su un tavolino da campeggio, a un vecchio signore che scruta l’orizzonte con il binocolo in cerca delle ammiraglie, a un adolescente che si tiene informato sulla posizine dei corridori tenendo una radiolina incollata all'orecchio. Ci sono alcuni giovani in giacca e cravatta, un tizio con una giacca di pelle, mamme con bambini. Tutti sono di buon umore e si godono il sole. ‘Questa è gente del posto’, fa notare il narratore, ‘che esce di casa per assistere alla tortura e al masochismo della corsa che ha reso famosa la loro regione nel mondo’. Tutti cercano di individuare una nuvola di polvere in lontananza. 

Oggi, se vi trovaste in quello stesso spazio di mondo, è probabile che incontrereste i figli e i nipoti di quegli spettatori del 1976, che fissano i loro telefoni invece che l'orizzonte. Incontrereste anche fan di diversi paesi del mondo, non solo persone locali. Come tutte le grandi corse in bicicletta, la Parigi-Roubaix è ora un affare globale. Amiamo le classiche del pavé perché provocano in noi una risposta emotiva complessa, un turbine di sensazioni intricato che ha a che fare con i ricordi e con il nostro passato, proprio come fanno le tappe di montagna dei grandi giri.

Che si tratti di strade scassate o di ripide salite, a interessarci sono gli ostacoli per i corridori. Causano una sofferenza visibile, il fango e la polvere sui volti, le espressioni di fatica ci danno un idea tangibile della battaglia. Il pavè richiede biciclette e componenti di prima qualità, intelligenza tattica e una capacità di guida straordinaria, tutti motivi per cui amiamo guardare le corse alla tv. Viene poi introdotto anche l’elemento di fortuna. Forse non siamo pienamente disposto ad ammetterlo, ma la sfiga che incombe su ogni azzardo, ci attrae. "La Parigi-Roubaix è l'ultima follia incontrollabile che il ciclismo offre ai suoi tifosi", ha detto Jacques Goddet. A volte gli Dei del Nord sembrano dilettarsi a giocare con il destino dei corridori usando come scusa pavé. Non è così, Gianni Moscon e Sonny Colbrelli?

La nostra risposta emotiva alle gare come Giro delle Fiadre e Parigi - Roubaix è stratificata, mutevole, complessa. Ci dispiace per i poveri corridori colpiti da sfortuna ma allo stesso tempo vogliamo vederli passare attraverso questo inferno. Applaudiamo le loro acrobazie e guardiamo e riguardiamo le cadute al rallentatore. È una forma sadico fatalismo che si ripete ogni volta come una recita al teatro.  

Oggi, le classiche del pavè hanno superato la follia. Sono una specie di romanzo storico che ogni volta si riscrive. Il palcoscenico è la strada e la terra nuda, il fango e un orizzonte desolato che è cambiato poco in 150 anni di storia. C'è un primordiale senso di immobilità del tempo che percepiamo nitidamente: l'uomo e il suo cavallo contrapposti agli elementi - vento, pioggia, pietra, gli altri. Lo sport può essere calcolo e forza fisica ma anche follia, eroismo, squadra, solidarietà, fortuna, desolazione.

Nel velodromo di Roubaix, il vincitore solleva un trofeo unico nel suo genere: una pietra grigia. Un trofeo umile, rozzo e pesante. Le pietre ci uniscono nel nostro passato collettivo. Il pavè simboleggia la sofferenza, la vittoria della volontà degli uomini sul destino e il passare del tempo. Il pavè richiede resilienza e il coraggio. Ecco perché il festival della sofferenza ciclistica del mese di aprile, non smetterà mai di esistere.

 

 



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