La legge del lungo: quali sono i benefici degli allenamenti di sette ore?

Ti va l’idea di incollare il tuo fondello alla sella per quasi un terzo della giornata? I ciclisti del WorldTour lo fanno regolarmente, e qui spieghiamo il perché dal punto di vista fisiologico.

Autore: James Witts

Quando non è impegnato a vincere due ori olimpici, a competere per innumerevoli altri titoli o a lanciare un’iniziativa per la sicurezza stradale dopo essere stato coinvolto in un incidente con un furgone postale, il belga Remco Evenepoel, come la maggior parte dei professionisti, accumula circa 28-30.000 chilometri di allenamenti e gare ogni anno. Si tratta di oltre 1.000 ore di pedalata, distribuite lungo il suo programma. Approfondendo un po’ di più, grazie a un vlog di Remco, emerge che alcune delle sue sessioni di allenamento superano le sette ore. Anche per un professionista, un’uscita di sette ore è davvero lunga.

In un episodio in particolare, le previsioni di maltempo imminente hanno costretto Evenepoel a suddividere l’allenamento in due blocchi, comunque considerevoli. Questo solleva diverse domande: qual è il fondamento fisiologico e prestazionale dietro uscite più lunghe di qualsiasi tappa o gara del WorldTour? E ci sono vantaggi o svantaggi nel dividere una giornata molto lunga in sella in due parti?

Abbiamo coinvolto allenatori e fisiologi di livello mondiale per analizzare a fondo questa strategia di allenamento impegnativa…

Più esperienza, più chilometri

Durante la Conferenza Science & Cycling 2023 a Bilbao, un esperto di scienze dello sport del WorldTour mi ha confidato che potrebbe arrivare il giorno in cui gli allenamenti dei ciclisti supereranno le otto ore. Mi è tornato in mente questo commento durante un ritiro del team Lidl-Trek, quando un membro dello staff ha menzionato come Mads Pedersen, campione del mondo su strada 2019 e specialista delle Classiche, spesso prolunghi i suoi allenamenti se si sente in forma. È per questo che ho cercato il parere di Mattias Reck, fisiologo svedese e allenatore di Pedersen e di altri atleti del Lidl-Trek.

“Per molti corridori del nostro team, gli allenamenti più lunghi durano circa sette ore”, spiega Reck. “Questo è particolarmente comune durante i ritiri, dove i ciclisti sono molto motivati e vogliono affrontare lunghi percorsi su belle strade. Detto ciò, Mads fa più uscite di sei-sette ore rispetto alla maggior parte dei suoi compagni. Ha bisogno di un grande carico per ottenere stimoli ottimali”.

Questo non sorprende se si considera il fisico di Pedersen, che appare più muscoloso e robusto rispetto a molti suoi colleghi. Con i suoi 183 cm di altezza e oltre 70 kg, il suo corpo si adatta perfettamente alle Classiche di Primavera e alle volate. Il 18 dicembre 2024 compirà 29 anni e ha già accumulato un’enorme quantità di chilometri nella sua carriera, molti dei quali affrontati nei rigidi inverni danesi. Quindi, speculando, è logico pensare che un corridore esperto e fisicamente potente come Pedersen abbia bisogno di un carico di lavoro maggiore rispetto a molti altri per spingere la propria fisiologia – e di conseguenza le prestazioni – a un livello superiore.

Ma cosa significa esattamente tutto questo a livello empirico e anatomico?
“Parlando in generale, ogni tipo di allenamento contribuisce sia a migliorare il VO2 max sia la resistenza di un corridore”, afferma Reck. Per chi non lo sapesse, il VO2 max – ovvero la capacità aerobica – è la quantità di ossigeno che un individuo può utilizzare durante un esercizio intenso. Semplificando, in generale, più è alto, meglio è per gli atleti di endurance.

Mads Pedersen

Pedersen è noto per prolungare gli allenamenti di resistenza del team (Foto: Dario Belingheri/Getty Images)

“Tuttavia, man mano che avanzi nella tua carriera, hai bisogno di stimoli extra”, aggiunge Reck. “Esiste una buona correlazione tra l’essere un professionista di alto livello e la capacità di mantenere un’elevata potenza anche dopo molte ore in bici; in termini di lavoro svolto (in kilojoule, kJ), parliamo di valori superiori a 3.000, 4.000, 5.000 kJ… Questo concetto scientifico relativamente nuovo si chiama resistenza alla fatica e non è possibile raggiungerla senza un certo numero di ore di allenamento. Quindi sì, uscite molto lunghe sono necessarie per costruire la resistenza e sviluppare questa capacità”.

La durabilità è fondamentale

O, per chi opera nel campo delle scienze dello sport, la “durabilità”. Rouleur ne ha già approfondito il concetto, soffermandosi sul lavoro di James Spragg, allenatore del team Tudor Pro Cycling. Spragg ha condotto diversi studi sulla durabilità, arrivando a un dato sorprendente:
“I gregari professionisti tendevano a mostrare un calo delle prestazioni dopo 2.500-3.000 kJ di lavoro. Non è chiaro se ciò fosse dovuto a un’incapacità fisiologica di mantenere una certa potenza o al fatto che il loro ‘lavoro’ all’interno della squadra fosse ormai concluso per quella giornata o tappa. Curiosamente, però, i corridori di classifica generale non mostravano cali nel profilo di potenza nemmeno dopo 3.000 kJ, suggerendo che la loro resistenza alla fatica e i loro valori di potenza elevata li rendessero particolarmente adatti al loro ruolo”.

Un’ulteriore ricerca del 2023, condotta da un gruppo di scienziati tra cui l’atleta Ironman Daniel Plews, ha concluso: “L’esercizio prolungato provoca cambiamenti fisiologici progressivi, come l’aumento della temperatura corporea e muscolare, l’esaurimento delle riserve energetiche, l’accumulo di danni muscolari e lo stress cellulare. La durabilità è definita come la capacità di un individuo di resistere a questi deterioramenti... ed è stata proposta come parametro chiave per la performance di endurance”,

C’è indubbiamente un elemento genetico in questo parametro di performance – Tadej Pogačar dovrebbe ringraziare ogni giorno i suoi genitori – ma, come ha concluso Spragg, un aspetto fondamentale che collega i ciclisti con grande durabilità è un enorme volume di allenamento. “Sembra che questo sia più importante dell’intensità quando si tratta di costruire la durabilità”, ha detto Spragg, pur sottolineando che i ciclisti dovrebbero mantenere una certa dose di intensità.

La magia dei mitocondri

Spragg ha suggerito che l’allenamento polarizzato è un contributo chiave alla durabilità. In termini semplici, significa dedicare una grande parte del tempo di allenamento a uscite a bassa intensità, con una piccola percentuale ad alta intensità. Il motivo si trova nei mitocondri. Questi sono le centrali energetiche delle cellule, il luogo dove si produce l’energia necessaria. Oppure, per dirla in termini ciclistici, i piccoli motori che possono determinare se vincerai o perderai una gara.

“Fondamentalmente, il volume totale di allenamento sembra essere correlato a un aumento del volume mitocondriale”, afferma Jamie Pringle, fisiologo dell’esercizio e aerodinamico presso Vorteq. “Questo probabilmente consente benefici come il mantenimento di una percentuale maggiore del massimo (una soglia più alta), una migliore economia di esercizio (minore costo di ossigeno) e probabilmente un risparmio di carboidrati grazie a un maggiore utilizzo dei grassi come combustibile (anche se questo è meno rilevante per la performance rispetto al passato, dato che ora possiamo alimentarci con quantità molto elevate di carboidrati [ne parleremo più avanti]; inoltre, bruciare più grassi rende il sistema leggermente meno efficiente, non più). Sembra che un maggiore volume di allenamento sia meglio per i muscoli”.

Pringle cita uno studio pionieristico del 2014 del Professor David Bishop, in cui l’australiano cercava di scoprire il nirvana degli atleti di endurance rispondendo alla domanda: si può ottimizzare l’allenamento per migliorare la funzione e il contenuto mitocondriale? In altre parole, l’efficienza e la quantità dei mitocondri, entrambi fattori che contribuiscono alla performance ciclistica.

Gran parte del lavoro di Bishop si è concentrato sulla citrato sintasi, un enzima esclusivamente presente nei mitocondri. Livelli elevati di citrato sintasi segnalano che un atleta dispone di una rete mitocondriale ricca e ben sviluppata, in grado di offrire un "motore" degno di Jens Voigt.

In uno studio approfondito, Bishop ha concluso: “Il volume di allenamento potrebbe rappresentare un fattore determinante per i cambiamenti nell’attività della citrato sintasi nei muscoli scheletrici ossidativi rossi (fibre a contrazione lenta, reclutate a basse intensità), mentre l’intensità di allenamento sembra essere più rilevante per i cambiamenti nell’attività della citrato sintasi nei muscoli scheletrici glicolitici bianchi (fibre a contrazione rapida, attivate solo ad alte intensità)”.

In termini più semplici, un grande volume è ottimo per la resistenza, una grande intensità è ottima per la velocità. Questo è ben noto. Tuttavia, Bishop ha anche concluso che “nelle fibre muscolari di tipo I non ci sono segnali di stallo; volumi di allenamento maggiori sono associati a ulteriori aumenti dell’attività della citrato sintasi... Sono necessarie ulteriori ricerche per capire se esiste un punto in cui ulteriori aumenti del volume di allenamento non portano a ulteriori aumenti dell’attività della citrato sintasi”.

In altre parole, Bishop non ha trovato un limite temporale alla crescita della citrato sintasi, il che significa che la durata di un’uscita lunga potrebbe teoricamente continuare ad aumentare. Quelle ricerche consigliate da Bishop sembrano ancora mancare. Probabilmente perché è difficile reclutare volontari disposti a pedalare per un’intera giornata in laboratorio per poi farsi prelevare un pezzo di muscolo per un’analisi bioptica. Strano, no?

Rivoluzione alimentare

Questo lascia il dibattito sulle uscite lunghe in sospeso, sebbene, a un certo punto, dolori, fatica o pura noia interromperebbero inevitabilmente una pedalata eterna. E va bene così, dice Bishop, perché puoi dare una spinta ai tuoi mitocondri anche con la nutrizione. “Esistono ricerche che dimostrano che bassi livelli di glicogeno muscolare possono favorire la biogenesi mitocondriale”, ci ha detto. Questo è il principio alla base degli allenamenti a digiuno, diventati molto popolari ai tempi del Team Sky. Non c’era intervista di allenamento con un ciclista del WorldTour che non menzionasse l’esaurimento del glicogeno come panacea per la performance. Si usa ancora, ma, secondo Reck, i suoi giorni migliori potrebbero essere finiti.

“Quando si parla di resistenza, ossidazione dei grassi e allenamenti ‘a digiuno, con un apporto limitato di carboidrati’, la pratica è cambiata. Gli allenamenti a digiuno erano più popolari qualche anno fa, ma con ulteriori ricerche, la sensazione è che non abbiano un reale impatto sulla performance”.

La scienza sull'alimentazione durante l’allenamento e la combustione dei grassi sta diventando sempre più dettagliata (Foto: Dario Belingheri/Getty Images)

“Credo che parte del problema sia che molte persone sopravvalutano quanto grasso realmente bruciano e sottovalutano quanti carboidrati utilizzano, anche a intensità piuttosto basse”, aggiunge Reck. “Questo dipende da miti o fraintendimenti su come interpretare il lattato nel sangue. Il fatto che il tuo livello di lattato sia basso non significa necessariamente che stai bruciando molto grasso. Molti professionisti estremamente forti, che si allenano 1000 ore all’anno con molte lunghe uscite di resistenza, possono comunque essere molto dipendenti dai carboidrati per produrre energia, anche con livelli di lattato ben al di sotto dei 2 mmol/L(valore che misura la concentrazione di lattato nel sangue)”.

Il lattato è un sottoprodotto del metabolismo dei carboidrati ed è spesso visto come un indicatore di quanto duramente un ciclista stia lavorando. Più alto è il valore in millimoli, più intenso è lo sforzo, poiché il lattato si accumula nel sangue. Tuttavia, Reck suggerisce che questo non tiene conto di quanto efficacemente i professionisti riciclino il lattato per generare ulteriore energia, rendendo fallace l’idea che bruciare più grassi sia la chiave per le prestazioni di endurance d’élite.

“In futuro, l’idea di allenarsi per pedalare bruciando quantità molto elevate di grassi, al fine di risparmiare le riserve di glicogeno [per sforzi più intensi come una salita o uno sprint], cambierà”, aggiunge Reck. “Sarà più una questione di quanti carboidrati riesci a ingerire durante l’allenamento e le gare – attualmente stiamo osservando molti dei nostri corridori consumare oltre 130 g all’ora – e di quanto di quell’energia [proveniente da gel, barrette, blocchi e bevande] riescano a ossidare per pedalare più velocemente e più a lungo.

Continuo o a blocchi?

Secondo Reck, un’alimentazione di qualità sarà ciò che consentirà sforzi più lunghi, maggiore durabilità e un gruppo sempre più forte. Parlando di giornate di allenamento lunghe, come quella di Remco interrotta dal maltempo, Reck osserva che non ci sono reali benefici o svantaggi fisiologici nel dividerle, sebbene le doppie sessioni possano essere utili per dilettanti motivati ma con poco tempo a disposizione.

“Per me, è più importante aggiungere brevi sprint alla fine di uscite facili di resistenza,” spiega. “Quando inizi a sentirti stanco sia mentalmente che fisicamente, qualche sprint breve ti rianima. Funziona sempre. Sei in gruppo, comincia a regnare il silenzio dopo alcune ore di pedalata a ritmo costante… Inserisci qualche sprint breve e tutti riprendono energia, iniziano a parlare, scherzare un po’!”.

C’è ancora spazio per qualche sprint anche durante un’uscita di allenamento lunghissima (Foto: Maximiliano Blanco/Getty Images)

Questo è l’aspetto sociologico, ma, secondo Pringle, c’è anche una logica fisiologica dietro questi sforzi ad alta intensità. “È possibile che ci siano aspetti delle uscite lunghissime che vengono stimolati in modo unico verso la fine della sessione, in particolare l’allenamento con bassissimi livelli di glicogeno in alcune fibre muscolari e una dipendenza quasi esclusiva da fonti esogene di glucosio,” spiega. “Se riusciamo a mirare deliberatamente a quelle fibre muscolari ‘ad alta soglia’ utilizzando strategie intelligenti, come esaurire le fibre a contrazione lenta e costringere il corpo a reclutare quelle a soglia più alta anche a intensità più basse, allora potrebbe esserci un margine di sviluppo”.

“È una teoria speculativa e non sono a conoscenza di studi concreti su individui altamente allenati, ma è possibile che sia esattamente ciò che accade per la maggior parte degli atleti di endurance ad alto volume durante il loro normale allenamento quotidiano. Si allenano sempre in uno stato di deplezione, quindi i segnali adattivi sono probabilmente già molto elevati.

Dove ci porta tutto questo? Uscite più lunghe sono davvero migliori?

Ci sono sicuramente evidenze, sebbene non definitive, che uscite costanti di sette ore formino nel tempo un atleta più resistente. Tuttavia, come sottolinea Pringle: “Dipende molto anche dal resto del programma. Se tutto ciò che il corridore fa sono uscite lunghe e lente, senza mai inserire lavoro ad alta intensità, diventa difficile condizionare quel tipo di ritmo specifico da gara se non lo si pratica mai.”

È per questo motivo che anche queste uscite lunghissime sono intervallate da sforzi più intensi, riflettendo l’ideale secondo cui il contenuto dell’allenamento dovrebbe essere specifico per le gare. Ma attenzione al sovrallenamento, avverte Bishop, perché più lungo non significa sempre migliore.

Alla fine, tuttavia, le uscite lunghe potrebbero offrire il loro maggiore vantaggio a livello mentale. Pedalare per lunghe ore forgia un’attitudine mentale stoica, che sperabilmente ripaga durante una gara, magari in una fredda e interminabile giornata nel Nord della Francia. “Tutto ciò che faccio è finalizzato a un solo obiettivo: 13.04.25,” ha scritto recentemente Pedersen su Instagram. La data della Paris-Roubaix. Se il danese vincerà, potrà certamente ringraziare quelle uscite extra-lunghe.

(Immagine di copertina: Dario Belingheri/Getty Images)

Autore: James Witts

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